Liberamente ispirato a La première éducation sentimentale di Flaubert, premio Delluc Opera Prima nel 2001, Toutes les nuits, film di esordio di Eugène Green, é già opera matura, nulla di inconcluso e in divenire, si direbbe piuttosto l’accordo iniziale di una sinfonia le cui variazioni sul tema riconducono ogni volta al loro centro di gravità, arricchendo lo spazio sonoro di nuove modulazioni. Toutes les nuits fonda gli stilemi di Green, nella filmografia successiva il terreno d’indagine allargherà i suoi confini ad altre vibrazioni, ma nei modi della narrazione la cifra resterà inconfondibile, mentre torneranno volti e nomi di un cast destinato a diventare una “famiglia” cinematografica inseparabile dall’ autore. Fino all’ultimo film, A Religiosa Portuguesa del 2009, il suo cinema sarà espressione di un pensiero coerente e complesso, teso a dare forma all’inesprimibile con un linguaggio rigoroso, arduo nella sua profondità, eppure capace di stabilire empatia piena con lo spettatore. Potrebbero riferirsi a lui le parole che Paul Schrader scrive parlando di Ozu: “In tutti i suoi film c’è una corrente sotterranea di partecipazione emotiva che, sebbene non espressa apertamente, sembra insita nei rapporti tra i personaggi e, soprattutto, tra i personaggi e il regista. Lo spettatore avverte la presenza di queste emozioni profonde, sepolte appena sotto la superficie.” ( P. Schrader, Trascendental Style in Film, 1972, prima ed. italiana Donzelli 2002, p.39 )
Toutes les nuits è una storia di formazione. Di Henri (Alexis Loret) e Jules (Adrien Michaux) scorrono sullo schermo dodici anni di vita, dall’estate del ‘67 al settembre del ‘79, il racconto é diviso in sezioni cronologiche sempre più ampie man mano che il tempo procede e le strade si fanno più distanti. Amici dall’infanzia, risoluto e pratico Henri, idealista Jules, teso all’affermazione di sé anche a costo di compromessi il primo, coerente fino in fondo con le sue scelte il secondo, hanno condiviso i primi anni di vita in uno scenario agreste di idilliaca bellezza. Le chiare, fresche e dolci acque di Vaucluse in Provenza sono state il luogo segreto dei discorsi, delle risate, dei ritorni estivi e della scoperta della donna, Selvaggia (Anna Bielecka), creatura misteriosa e solitaria che emerge nuda dall’acqua, oggetto di contemplazione a distanza. Di lei si sa che riceve uomini nella casetta di legno isolata in mezzo ai campi di lavanda, con la piccola finestra illuminata di notte.
“Forse è una prostituta” dice Henri.
“Credo che lo faccia per amore” risponde Jules.
Nella luce dorata dell’estate, Green dipinge con pochi tratti intensi la giovinezza radiosa di due giovani profondamente diversi, eppure uniti da sottili corrispondenze, la vita sta per allontanarli, ma quel magnetismo che li lega anche a distanza resterà intatto. Peregrineranno nelle città, si cercheranno, cercheranno la donna da amare, ognuno avrà il proprio linguaggio per dire le cose e l’amico le capirà, “perché gli amici sono sempre insieme- dice Jules – anche quando sono lontani, ognuno dice le cose a suo modo e l’altro capisce.” Green segue i loro passi, riprende piedi che camminano, s’incontrano e si allontanano, mani che s’intrecciano, dettagli di quotidiana normalità, vite in uno spazio circoscritto da una concezione del tempo in cui tutto è presente, perché “il presente è il solo tempo vero, quello che contiene tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà “ afferma il regista. E allora ecco riprese frontali, sguardi in macchina che rompono la quarta parete, una sintassi visiva e verbale tesa a stabilire comunicazione, incontro, permanenza, dando alla superficie mutevole del tempo la durata infinita, piena e significativa di una invisibile spiritualità. “La notte è l’unico momento per essere felici” ha detto Jules a Henri in una delle prime scene, mentre la luna scorreva nel cielo tra vapori leggeri e la voce di Claire Le Filliatre cantava Toutes les nuictz di Clément Jannequin:
Toutes les nuits, tu m’es présente
par songe doux et gracieux.
Mais tous les jours, tu m’es absente
qui m’est regret fort ennuyeux.
Puis donc que la nuit me vaut mieux
et que je n’ai bien que par songe,
dormez de jour, ô pauvres yeux!
Afin que sans cesse je songe.
La partitura musicale, elemento diegetico forte nella scrittura cinematografica di Green, fa da contrappunto alle parole in una drammaturgia musicale e visiva in cui lo spazio sonoro è indizio dell’azione, il dialogo fra i personaggi é scarno e rivelatore, la parola é forma del loro essere e segno del loro divenire: “Fin dalla più tenera infanzia – ha detto Green – so che é la parola che fa l’uomo e lo porta a distinguersi dalle altre creature viventi. Una lingua é una versione particolare del mondo, e la lingua che si parla determina in parte ciò che si é.” Quando la vita allontana Jules ed Henri perché studi e masters proseguono tra Aix-en-Provence e Parigi, ci saranno le lettere per comunicare, un epistolario affidato alla loro voice over, con scambi di notizie e promesse di ritrovarsi che spesso Henri non mantiene, preso com’é dal romanzo della sua vita. Jules é riflessivo, sogna di diventare scrittore, resta a lungo in paese, sembra esitare a spiccare il volo. Andrà infine a Parigi e sarà per constatare che non é lì la vita che cerca, e le sue peregrinazioni lo porteranno fino al monastero greco dove, scriverà all’amico, “ho sentito la mia voce e forse altro”. All’Università, luogo in cui ha cercato corrispondenze al suo amore per la bellezza, ha invece sentito che “la bellezza non esiste, é un concetto borghese”. E’ il ’68, “l’età delle molte parole”, felice definizione di Edgar Reitz in Heimat (( E.Reitz, Die zweite Heimat – Chronik einer Jugend, parte 12, 1992 – “L’ideologia del ’68 condannava e criminalizzava l’arte come attività borghese, riservata nel migliore dei casi ai collettivi. Non osavo più seguire le mie idee, ero bloccato dall’ideologia del movimento studentesco in cui credevo, perché si accordava con il mio idealismo democratico. In definitiva direi che il ’68 non ha realizzato la sua rivoluzione e dall’altra ha creato una profonda insicurezza artistica distruggendo una certa tradizione culturale.” (E. Reitz, cit. in Cronaca di un secolo concluso, la trilogia di Heimat di Edgar Reitz, a cura di T.Subini, Temi di cinema/3, 2007, p. 262) )
La lettura “sonora” che Jules fa dei versi di Verlaine é contestata con giudizi beffardi da colleghi e professore, agguerriti rappresentanti della schiera di intellettuali engagés molto attivi in quegli anni, a cui Jules risponde perplesso: “Verlaine credeva che senza musica la poesia non può esistere” “E tu cosa credi?” fa il professore “Io credo che la musica sia il segno necessario della poesia e in assoluto la poesia sia un’altra cosa. In ogni serie di rumori é possibile rilevare sequenze ritmiche, ma il rumore non é musica e la poesia é la presenza manifesta nel linguaggio…”
“Di cosa?” | “Di un ordine, non parlo di un ordine politico” | “ Tutto é politico!” | “Si tratta di un regno dello spirito, é qualcosa di universale, quello che si può sentire quando si é da soli in una chiesa…” | “Non ho mai sentito qualcuno della tua età rilasciare una dichiarazione così reazionaria”.
Il professore chiude, tranchant, la penosa discussione. Il clima della Parigi investita dai moti del ’68 delude Jules che, pure, si sforza di partecipare, ricavandone solo manganellate, sberle e aggressioni verbali del genere: “Sei disgustoso, la bellezza é uno strumento di oppressione di classe, parli come un esteta borghese”. Ha lasciato il paese quando la piccola Lucie (Laurène Cheilan), attrice girovaga, partita per sempre con Bardi (Xavier Denamur), il rude e sardonico capocomico, gli ha scritto parole belle ma senza speranza: “Se, come credo, non ci vedremo più, sappi che ti ho amato, ma in modo diverso. So che tu credevi che io fossi un angelo. Io non sono un angelo, ma posso immaginare cosa sia un angelo perché tu mi hai amato.” La lettera di sfogo disperato che Jules ha subito scritto ad Henri é stata accolta dall’amico con un ingeneroso: “Stupido bastardo, questo idiota crede di essere un martire”, ma la stessa lettera ha stabilito con Emilie (Christelle Prot), terzo personaggio della storia, una corrispondenza forte, un dialogo a distanza che non sarà mai trasferito nella realtà, segno profondo della loro affinità elettiva. Emilie, oscillante come i due amici fra illusione e delusione, é una donna intensa e ricca di idealità, ha voluto Henri e per lui ha lasciato il marito (Claude Merlin), ma non può essere lui il suo uomo, li separa il suo freddo materialismo e l’incapacità di vedere oltre il reale. Il rapporto é presto logoro, lo vediamo appassire in una successione di primi piani riempiti da silenzi o frammenti di dialogo, frasi per segnare distanza, comunicazione negata. L’ultimo incontro, dopo tanta assenza, quando Henri la cercherà dopo anni, spinto dalle proprie insoddisfazioni, si chiuderà con l’inquadratura desolata di un tavolo e due sedie vuote: “L’uomo a cui mi sono data dodici anni fa non é l’uomo davanti a me e la donna che hai amato non esiste più. Felicità, gioia … cosa possiamo capire guardandoci in viso? Non rimane nulla …” Henri é stato l’amante a cui Emilie ha detto: “ Ti ho conosciuto attraverso la mia mente, forse ti ho inventato”, ora é il padre inconsapevole della figlia che lei ha voluto con forza, affidando a questa nuova vita il valore di segno atteso, miracolo incarnato, nel finale, dalla misteriosa apparizione cristologica dell’uomo con ferite alle mani simili a stimmate (Philippe Gaudry), fuggito dal carcere per “trovare la fine del male”. Il suo nome é Jules, e questa identificazione con l’enigmatica apparizione investe l’altro Jules di un ruolo che supera i confini di tempo e di spazio. E’ lui che Emilie ha scelto per un’ unione nella dimensione che andrà oltre il visibile: “Io ti amo Jules, questo é un grande mistero, una cosa immensa… ciò che esiste tra noi non deve mai essere di carne, l’amore che grida la nostra esistenza così forte non conosce il corpo anche con la vista. Noi saremo legati da una comune esistenza nel mondo anche in un’esistenza corporea. Ma non sarà attraverso la conoscenza. Accetta quello che é necessario”. Solo Jules potrà allora cercare la figlia di Emilie, presenza epifanica che dà senso ai legami d’amore e di amicizia e sancisce l’unione di vite intrecciate dal caso. Per lei Jules ci sarà sempre, “toutes les nuits, perché gli amici sono sempre insieme, anche quando sono lontani. Dovunque sarò, vedrò la luce alla tua finestra”. L’ultima lettera di Jules a Henri, tesa fra le due scene, l’iniziale e la finale, é il bilancio consapevole di un percorso di formazione e di passaggio: “Tu hai detto che nella vita ogni cosa non può accadere che una sola volta. Avevi ragione. Ma dodici anni fa, giorno in cui Selvaggia entrò nella casetta, tutto fu possibile per te e per me. Da allora le nostre strade si sono separate. Non é uguale per tutti nel mondo, eppure il destino aveva consentito di incontrarci per il grande mistero che eravamo, entrambi erranti nella stessa notte. Ora ognuno seguirà la propria strada e gli darà senso. Fino alla fine, ci sarà sempre una donna nella nostra notte, il segno della strada e del suo adempimento, dove tutto si dissolve e dove tutto diventa possibile”