lunedì, Dicembre 23, 2024

Eugène Green, il mondo vivente 2/6: Le monde vivant

La stilizzazione del teatro barocco per questa fiaba medievale di Cavalieri, Damigelle e un Orco (Arnold Pasquier); un bel golden retriever (Sam) che il Cavaliere del Leone (Alexis Loret) porta al guinzaglio, dicendo a chi incontra che é un leone; due bambini (Achille Trocellier e Marin Charvet) che finiscono come Hänsel e Gretel nella stia dell’Orco; un’asina (Gypsy), un piccolo elefante (Grissou) e un gran castello incantato immerso nel verde; duelli all’ultimo sangue fra Orco e Cavalieri erranti per salvare le Dame che il mostro ha rapito.

Tutto questo in Le monde vivant, presentato in concorso alla Quinzaine des realisateurs di Cannes nel 2003, lungometraggio di settanta minuti prodotto da Martine de Clermont-Tonnerre in co-produzione  con i fratelli Dardenne. Diviso in due parti, la prima di durata quasi doppia della seconda, ha un impianto teatrale, con  alternanza di interni al castello ed esterni girati nell’ampia vallata lussureggiante del Béarn, regione densa di storia della Francia sud-occidentale vicina ai Pirenei, antica sede dei Celti. Patria, dunque, di gnomi, folletti e fate, nelle sue foreste vibra l’eco dei misteriosi riti druidici, nelle querce ancora parla lo spirito della foresta (Ruediger Floerke) e l’albero incantato tende le braccia (Lydia Nataf), dalla ruvida corteccia colpita dalla spada sgorga rosso sangue e il profilo del Chateau de Montaner emerge dalla massa verde in tutta la sua turrita imponenza.

Un pensiero di Maître Eckhardt é la didascalia d’inizio:
Si Dieu manquait à sa parole, sa vérité, il manquerait à sa divinité, il ne serait pas Dieu car il est sa parole et sa vérité

Nicolas (Adrien Michaux) é sparito da tre giorni dal suo mondo reale per entrare in una fiaba. La prima inquadratura sulla sua camera spoglia, francescana, il letto perfettamente in ordine, muove lentamente la ripresa verso la finestra sul fondo, dietro i vetri stormiscono alberi fruscianti, mentre le voci dei genitori dicono:

“E’ sparito da tre giorni”
“Ci chiamerà”
“No”
“Come puoi saperlo?”
“Quello che è detto è detto”.

La voce di due baritoni per il Dies irae della Messe des morts di Nivers apre la traccia sonora, modulata in successione dall’Arpeggiata dell’Arpa barocca e da danze italiane del XV secolo, “La Rosina” e “Un cavalier di Spagna”. Montagne “brune per la distanza” incorniciano un sontuoso scenario naturale, “da quelle oscurità un Nume parla”, senso panico della natura e mistero insondabile dell’Universo per un’amabile rêverie che Green mette in scena sul tema del rapporto tra materia e spirito nella rappresentazione cinematografica. Lo spirito della fiaba e il potere della “parole” nella vita degli uomini s’incontrano su un terreno dal labile confine tra realtà e sogno, lo straniamento prodotto dai ribaltamenti tra reale e irreale rimette continuamente in gioco la percezione del vero, contemporaneità e dimensione mitica convivono in tutto il tessuto del racconto. Cavalieri in jeans e camicia Oxford sfidano l’Orco con antiche spade, due Dame dalla silhouette ben definita da tubini all’ultima moda aspettano di esser liberate dalla prigionia in cui le tiene l’Orco, due bimbetti giocano al tiro alla fune, e, quando passa il Cavaliere del Leone con il suo cane al guinzaglio, non hanno dubbi, vedono un leone.

Come?” chiede il Cavaliere “vedete un leone?”
“Avete la spada e portate un leone”
, risponde il più grande.

E’ la parola detta che conta nella favola, il patto del narratore con il lettore/spettatore presiede alla diegesi e lo sguardo  del bambino non ha bisogno di occhiali per vedere. Come la volpe di Saint-Exupéry, potrebbe rispondere: “Il vero è invisibile agli occhi, si vede solo col cuore”.

Fiaba anomala, con attori che parlano seguendo una pulsione lirica più che narrativa, Le monde vivant é soprattutto un gioco divertito sulle possibilità del cinema di rappresentare l’irrappresentabile. L’ “apparizione di senso” si verifica nel ritorno a quella comunicazione orale/aurale che dialogo e immagini consentono, e se la parola é il medium della comunicazione fisica, dunque circoscritta dal tempo, non soggiace alle condizioni del tempo, gli sopravvive in quell’eterna contemporaneità in cui vivono le parole, come le chiamò Omero, “alate”.

La parola detta che getta un ponte fra gli umani può estendere il suo potere a tutte le specie viventi, al mondo vivente, non importa che i codici linguistici siano articolati secondo regole. Dunque Nicolas può dialogare con l’albero che gli offre riparo e nutrimento, mentre dell’Orco, simbolo del male a cui non é concesso questo strumento di civiltà, si odono solo orribili grugniti. I momenti dell’incontro d’amore fra esseri umani, siano quelli del Cavaliere del Leone con Pénélope (Christelle Prot), moglie dell’Orco, o di Nicolas con la Dama della Cappella (Laurène Cheilan) sono modulati con vibratile intensità verbale:

“Il pane è la vita, come le parole, dividiamo il pane come le parole”
“Voi mi avete veramente parlato stanotte, c’erano le vostre parole, nel mondo vivente il soffio dello spirito é il soffio del corpo”
“E’ per le vostre parole che ci siamo ritrovati, é la parola che mi ha liberato”
“Cosa si prova ad essere liberi?”
“Gioia”

 Semplicemente, la gioia.

Il mondo di Green, con le sue creazioni fantastiche, la sobria, asciutta modalità di comunicazione dei suoi personaggi che dialogano affrontati, offrono sguardi diretti alla macchina da presa mentre attraversano lo spazio scenico come attori di teatro, mette a nudo la convenzionalità della rappresentazione. L’arte non copia né crea la natura, statuto dell’arte é rappresentare nel modo più illusionistico possibile la realtà, come la scrittura. Pensiamo alle parole di Magritte:la pittura non ha a che fare con la realtà, ma con il pensiero”, dunque arte come libertà, condizione unica per il pensiero. Nella libertà il pensiero frantuma la superficie del reale e ne scopre la profondità. Scopre che oltre il velo si mescolano in caotica convivenza il male e il bene, la morte e la vita, la violenza e l’amore. La libertà di guardarli e di dar loro un nome é gioia. Della gioia il prodotto immediato é il gioco, del gioco la magia, la recita, il superamento delle convenzioni estetiche, il virare anche all’assurdo, se necessario.

La “lotta alla logica” proclamata da André Breton, secondo cui: “Il punto centrale di questa filosofia é l’accettazione di ogni aspetto dell’irrazionale, dal gioco alla magia, dal caso all’assurdo”, é la presa d’atto della perdita di efficacia della logica tradizionale. Penelope e il Cavaliere del Leone si uniscono solo dopo la morte di lui (di delicatezza ineguagliabile la ripresa delle loro mani che si stringono nel buio), come Sarah e Pascal in Le Pont des Arts. L’amore di Emilie e Jules in Toutes les nuits vive nel non-incontro, le Correspondances di Virgile e Blanche hanno tutta l’aria di rimanere solo parola scritta in mail perché possano sopravvivere, e gli incontri di Julie de Hauranne in A Religiosa Portuguesa sono fantasmi evanescenti o memoria dolorosa. Arriviamo così a Lacan, di cui in questo film si coglie l’eco in un breve frammento del parlato, “una strega lacaniana”, ma che sentiamo presente in tutta l’opera di Green.  Da “Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi “ del ’53, sembra infatti discendere il tema centrale della ricerca artistica del regista, per il ruolo primario che attribuisce alla parola. Vicinanze anche sul piano umano si colgono nelle loro biografie, se pensiamo all’amore di Lacan per la carnalità della pittura barocca e il misticismo della statuaria berniniana che resero forte il suo legame con l’Italia.

Il nostro desiderio è sempre desiderio dell’Altro e quest’Altro a cui incessantemente ci rivolgiamo non risponde mai alle nostre domande, costituisce un inquietante luogo vuoto … L’oggetto che muove il nostro desiderio è costituito da una mancanza … Al centro del nostro Sapere inconscio c’é una faglia irriducibile, la quale ci espone al confronto con un godimento mortifero … Il sintomo ci é indispensabile per vivere … L’uomo é solo davanti alla propria responsabilità di soggetto desiderante, la ragione é impotente” (( Janja Jerkov in ASSOCIAZIONE LACANIANA INTERNAZIONALE IN ITALIA ))

Nell’affermare anche Green, con forza, tutto questo, avvertiamo però, nello stesso istante, un’irriducibile ricerca, una tensione che si traduce in leggerezza, sguardo arguto, non di rado divertito, lo stesso che illuminò  Le notti bianche di Dostoevskij:

Un intero attimo di beatitudine!
È forse poco, anche se resta il solo
in tutta la vita di un uomo?

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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