Set scarno, sguardi stretti e laidi, inquadrature insistite, descrivono il limbo senza senso in cui vive Adam, addetto al lavaggio di cadaveri in un ospedale lazzaretto-infernale che pare essere la metafora di una nazione disastrata. Errori medici marchiani, maitresse che reclutano parenti dei degenti che non possono pagare i medicinali, bombardamenti mediatico-politici, fanno da cornice alla stramba storia d’amore che investe il nostro protagonista invaghito della figlia di un degente affetto da estreme flatulenze purtroppo entrambi senza identità; quando questa sarà morta, per non cederla agli sciacalli, Adam (che ha chiamato l’amante Hawa = Eva) non a caso, sarà costretto a rapirne il cadavere ed arrivare alla pessimistica soluzione finale. Kusumanadewa incarna il malessere della sua nazione nel corpo tatuato e semidistrutto di Tio Pakusadewo (anche autore delle musiche). La metafora diventa iperbole, lo sberleffo sagace e grottesca canzonatura, la satira sconfina nella scatologia più lurida. Molti premi in patria per un grido pessimistico di aiuto o meglio un invito ad un popolo a ritrovare l’orgoglio di essere nazione e una sferzata ai miserabili per ritrovare la propria. In Indonesia si fa ancora cinema politico.