Tai è in carcere e sogna una valigia rossa piena di pezzi di cadavere, fuori un pazzoide con la mantellina rossa uccide e strazia corpi smembrandoli e riponendoli in una valigia dello stesso colore; premessa semplice per un film complesso per tematiche, scelte semantiche e soluzioni narrative. Kongkiat Khomsiri osa, radicalizza, stupisce, violenta: l’indole, gli occhi, il senso del decoro di chi guarda, ma nel contempo armonizza sia con lo script che graficamente, con il rimanente 50% di lirismo puro. Accosta incesti, violenze carnali, omosessualità puberale, quartieri rossi squallidissimi a sentimenti puri e perciò a senso unico, infanzie bucoliche, giochi puerili, amicizie protettive. La guida che traghetta nell’inferno della follia perversa e aberrata del killer è il corpo stesso di Tai che nel viaggio alla ricerca del passato dimenticato transita nei luoghi che poco alla volta hanno generato il mostro e scaturisce i ricordi in continui flash-back di inaudita potenza. Il merito del giovane regista thailandese sta nel riuscire a combinare gioco e orrore con un’eleganza stilistica eccellente grazie a l’uso della fotografia da lui stesso curata che si avvale di diversi registri visivi sempre ben amalgamati e la saturazione del colore, che mi si permetta, ricorda da vicino alcuni lavori del maestro Bava, come ha ricordato nella presentazione a sorpresa Federico Zampaglione presente in sala per il passaggio del trailer del suo nuovo film Shadow.