Con questo documentario Gianni Amelio, classe 1945, ha voluto dirci – sommessamente – di essere frocio. Grazie Gianni, lotta con noi. Lotta? Mica tanto. Felice chi è diverso raduna una ventina scarsa d’interviste a persone lgbt (in massima parte omosessuali maschi, ma anche una trans m>f e una lesbica) tutte, più o meno, dell’età di Amelio. La prospettiva parrebbe quindi storica: il ricordo amaro addolcito dal tempo, il mito fascista del maschio faber, l’Italietta democristiana dei rotocalchi. Umberto Bindi che canta Il nostro concerto.
Il film parte bene, con una bella selezione (a cura di Francesco Costabile) di cinegiornali e frammenti di cellulosa e celluloide che la dicono lunga sull’omofobia inscritta nel dna italiota. Riaffiorano termini desueti come anfibio, invertito, capovolto (la Roma capovolta di Giò Stajano…) e tra le varie testimonianze, tutte anonime – i nomi appaiono solo nei titoli di coda – alcune voci parlano il linguaggio dell’anticonformismo, della militanza involontaria. Una critica all’importazione del termine «gay», paragonata a una colata di cemento sulla varietà degli epiteti all’italiana; una riflessione, da parte di un ex andreottiano vicino a Paolo VI, sulla rinuncia al coming out intesa come stratagemma opportunistico per poter godere, in privato, della libertà di costumi tipica della scena omosessuale.
In un secondo momento, Felice chi è diverso rallenta, si perde. La lunga parentesi su Pasolini non dice nulla di nuovo, e se da un lato ci fa riascoltare Che cosa sono le nuvole di Modugno, dall’altro scodella le consuete ambiguità targate Ninetto Davoli. L’impressione che si proceda per riempitivi si fa sempre più netta, e quando davanti all’obiettivo appare un uomo con gravi handicap, la commozione si accompagna a un vago senso di colpa guardone.
La testimonianza chiave è quella di sua maestà Paolo Poli, che ci legge la breve poesia di Sandro Penna eponima del film, pubblicata nel 1950. Amelio alterna l’amarcord briosa e sfrontata dell’uomo di teatro a immagini televisive anni Settanta, quando Poli deliziava il pubblico dei varietà Rai en travesti. In compenso, non si parla dello scandalo suscitato dallo spettacolo Rita da Cascia, interrotto dalla polizia nel 1967. Questa è, a ben vedere, la cifra del documentario. Uno sguardo (s)velato, magari birbante ma mai militante, sull’omosessualità in Italia vissuta come l’ha vissuta Poli, a colpi di sveltine «alla cosacca» ma in totale assenza di marce, o anche solo di dichiarazioni palesi, a difesa dei diritti civili.
Una reticenza di fondo che ricorda i due documentari passati anni fa alla Berlinale sulla vita lgbt sotto la ddr (Unter Männern e Out in Ost-Berlin ). Un parallelo abbastanza inquietante, con tutto che Amelio sceglie di mettere il silenziatore a questo suo tardivo colpo in canna, e di non parlare di casi incresciosi come la condanna del giornalista Aldo Braibanti nel 1968. Manca l’analisi, in Felice chi è diverso, manca lo sprone à la Rosa von Praunheim, quel «combattere oltre al battere» (farina del sacco di Mario Mieli) che pur viene citato en passant da uno degli intervistati. E mancano, soprattutto, gli ultimi trent’anni di storia italiana. È indubbiamente una scelta voluta, quella di interpellare solo persone di una certa età fermandosi, di fatto, ai primi anni dell’Aids (argomento, peraltro, appena accennato). Il dramma è che il documentario sembra fatto, al più tardi, nel 1982. Non odora di Storia: puzza di stantio. E il ragazzo giovanissimo inserito nel finale, che parla di facebook e mobbing scolastico, sembra messo lì con lo scotch.
Non è un documentario militante, non è una storia organica del movimento omosessuale in Italia, non è nemmeno un’opera fortemente autoriale o latrice di novità. Cos’è, Felice chi è diverso? È il coming out di velluto di un maschio omosessuale di anni sessantanove.