Non pare un caso che, fin dal titolo, molti dei lungometraggi che compongono la sconfinata opera di Frederick Wiseman, si sovrappongano perfettamente all’ambiente in cui sono stati girati. Come per Hospital, Ballet, Central Park, High School, anche Boxing Gym ricerca l’identificazione meno perfettibile con l’oggetto del suo rappresentare, candidandosi ad emanazione osmotica su pellicola di un luogo fisico e del suo mosaico sociale. Nel suo ultimo film, l’ottantenne documentarista americano ci accompagna infatti a respirare gli umori indolenziti ma gravidi di passione di una palestra di pugilato nel Texas faticosamente bilingue del repubblicanesimo bianco e dei latinos affamati di integrazione. Come per cinquant’anni ha insegnato a fare attraverso il suo cinema, Wiseman si impegna a ridurre al minimo la rifrazione che la luce del reale inevitabilmente subisce attraversando il prisma di un testo narrativo. Trasparenti, mimetizzati, ormai parte integrante delle artigianali attrezzature della palestra, il cineasta e il suo operatore registrano, selezionano, riordinano, timorosi di bucare col proprio intervento la patina sottile che suddivide la spontaneità dalla messa in scena e interessati a riportare, nell’inevitabile manipolazione del montaggio, una traccia fedele all’esperienza in prima persona tra quelle mura. Più che un pedinamento del reale, un paziente appostamento in attesa del suo graduale rivelarsi, non nel lampo di un episodio ma nell’accumulo di azioni e relazioni apparentemente interlocutorie. Le vicende umane prendono forma spontaneamente, da uno sguardo, una postura, una battuta, un atteggiamento, non raccontate ma trapelate spontaneamente dalla routine degli allenamenti. Nell’impasto distratto delle conversazioni di fine esercizio, la guerra in Iraq si mescola ai commenti sui grandi incontri di boxe, le difficoltà di trovare un lavoro alle notizie sulla strage del campus di Virginia Tech. Il fuori campo delle grandi contraddizioni americane riecheggia tra le pareti ricoperte di materassi cadenzato dal frullo di un sacco veloce o dal calpestio di un salto alla corda, nel ritratto sinfonico di una comunità che sembra trovare istanti di sospesa armonia nelle ripetizioni ipnotiche di un combattimento contro sé stessi. Wiseman continua a coreografare la realtà col semplice strumento dell’osservazione, perseguendo nella pratica di un cinema sanamente curioso, caparbio, ormai classico, anche nella sua accezione più vicina al fastidioso demodè, ma dei cui pazienti insegnamenti si continua a sentire bisogno.