lunedì, Dicembre 23, 2024

Final Portrait, l’arte di essere amici di Stanley Tucci: la recensione in anteprima

C’é una vicinanza precisa tra i due personaggi portati sullo schermo da Stanley Tucci con i suoi ultimi due film. Joe Gould e Alberto Giacometti svelano l’unica possibilitá del gesto nella sua drammatica incompiutezza. Tra la non documentabilitá della storia orale del mondo e il ritratto di James Lord che Giacometti interrompe continuamente, la dimensione performativa conserva l’unica luce di veritá in quel momento apicale inenarrabile, qualcosa che subito dopo é qualcos’altro tanto da costringere alla cancellazione. Il cuore di una cipolla sbucciata, diceva Giacometti in una sua nota conversazione filmata con Jean-Marie Drot, non si raggiunge mai.
Senza alcuna pretesa davvero teorica, il film di Tucci cerca di catturare questa precarietá del reale nella prova di bravura di Geoffrey Rush, tutta giocata sulla gestione furibonda di uno spazio angusto, quello possibile e immaginale dello studio.

Non si esce mai da quello spazio, anche nelle pochissime sequenze in esterni, giocate quasi tutte sulla ricostruzione iper-reale e illustrativa, falsificante e patinata, questo perché l’unica possibilitá di scorgere questa improvvisa sospensione del senso viene offerta dalla mobilitá del corpo di Rush, vero e proprio soggetto sfuggente di un ritratto in potenza.

Tucci in questo senso tira via e dirige un film a tratti sciattissimo che non esce dalla dimensione bozzettistica, debolissimo nella riproposizione di alcuni stereotipi legati a Parigi, ma allo stesso tempo totalmente scisso dalla necessitá di diventare un “film”, un biopic dalle regole ferree, una narrazione biografica e storica verosimile. Per avvicinarsi a Giacometti rimane quindi al livello del gioco, puntando sulle qualitá performative dei suoi attori e ingaggiando dei piccoli corpo a corpo ripetuti tra Rush, la Testud e Clémence Poésy.

Se la conclusione del ritratto di Lord é sostanzialmente legata alla sua stessa interruzione, ad un inganno percettivo e in prima istanza, alla distrazione rispetto agli automatismi del processo creativo, unica possibilitá per Lord di introdursi, il film di Tucci non riesce a restituire questo anti-processo della sparizione se non in modo debole e vernacolare. Si libera allora dalla cornice del quadretto pastello e agiografico solo spostando l’attenzione dall’occhio ai corpi, dal film come prodotto all’anarchia della performance attoriale, dalla storia raccontata al gesto performativo che cerca di afferrare il vuoto.

Ma come si diceva, non é una consapevolezza legata alla costruzione dell’immagine, o al contrario alla sua distruzione attraverso l’emergere della mancanza, dell’assenza e del fuori campo. Niente di tutto questo.

L’ombra di Giacometti la si scorge solo nei giochi di Rush con gli oggetti, il denaro, lo spazio circostante, la metamorfosi dello studio, costruito al centro di finestre e trasparenze per accogliere il dialogo fisico tra questo straordinario attore e gli elementi di un luogo da attraversare con sincera intensitá.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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