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Finding Happiness di Ted Nicolaou: la recensione

Inizia come un reportage documentaristico, con filmati di repertorio sull’ultima crisi di Wall Street, Down Jones in picchiata, mercati che crollano, miliardi che bruciano, homeless che frugano nei bidoni della spazzatura e poliziotti in tenuta anti sommossa che sedano le piazze scalmanate con idranti e lacrimogeni.

Scenari disumanizzanti, déjà vu fin troppo consueti da terzo millennio, la vorticosa ripresa aerea sui grattacieli di Manhattan assegna allo sguardo una condizione di rassegnata disperazione, lo sky line della città tende al cielo grigio i suoi tentacoli di cemento mentre il portavoce governativo legge da uno schermo televisivo il prevedibile comunicato ufficiale:  “Il benessere e la sicurezza degli americani sono in pericolo”.

Nell’immensa fucina di sfruttamento di “un’ età – scriveva De Lillo – in cui il denaro parla a sé stesso”, benessere e sicurezza sono diventati sinonimi di felicità e i grandi temi della vita e della morte, dell’amore e del dolore, della solidarietà e della convivenza civile sembrano aver perduto diritto di cittadinanza.

Il direttore del Profile magazine e Juliet Palmer (Elisabeth Röhm), giovane giornalista d’assalto, specializzata in reportages sociali e fatti di cronaca giudiziaria, stanno discutendo con toni venati da blando scetticismo sul filmato appena visto, un promo che, dopo gli scenari urbani da apocalisse prossima ventura, con rapido cambio di scena approda sui prati verdi e i boschi lussureggianti dell’Ananda World Brotherhood Village, sede della comunità fondata nel 1968 da Swami Kriyananda, al secolo J. Donald Walters, discepolo del leggendario maestro indiano Paramhansa Yogananda.

Sostenitore e amico del Mahatma Gandhi, Paramhansa Yogananda ne aveva condiviso gli insegnamenti, facendo sua l’idea di non violenza e resistenza passiva. Nel 1920, giunto negli Stati Uniti, aveva cominciato a diffondere i fondamenti e le tecniche di meditazione del Kriya Yoga, antica disciplina spirituale elaborata da un maestro dell’Himalaya e rivolta a tutti gli uomini, senza distinzione di religione e ceto sociale. La sua Autobiografia di uno yogi, best seller di risonanza mondiale, divenne da allora il testo di riferimento delle numerose comunità spirituali nate nel mondo e fu ben presto il libro sacro dei giovani sessantottini.

Ad una Juliet scettica quanto basta, perfetto complemento della cornice asettica di un ufficio super tecnologizzato, illuminato da grandi vetrate con vista su Manhattan, il direttore chiede di trascorrere una settimana nella comunità Ananda per una full immersion da cui trarre un reportage in presa diretta per i suoi lettori.

Se è solo aria fritta lasciamo perdere” le concede, dopo aver tentato di farle accettare di buon grado l’incarico lasciando indietro un lavoro iniziato.

A Juliet non resta che partire, sarà una vacanza pagata, dopotutto.

Ted Nicolau sceglie di restare a metà tra documento e fiction, attori e personaggi reali convivono sulla scena per raccontare una storia eccezionale, quella di un uomo, J. Donald Walters, che per più di cinquant’anni ha affrontato dure sfide per portare al successo una scelta di vita coraggiosa e impopolare, assolutamente fuori da tutti gli schemi, qualcosa di molto complesso ma anche inscrivibile in una formula molto semplice: “Quando si cambia, tutto il mondo intorno cambia. Inizia il viaggio per trovare la felicità.”

Sono le parole che Swami Kriyananda dirà, congedandola, alla bionda Juliet, ormai completamente galvanizzata dopo una settimana trascorsa in quel mondo a parte, mille ettari di terreno immersi nel verde nei dintorni di Sacramento in California (le riprese sono fatte anche nelle comunità di Palo Alto, Assisi e Kriyayoga Ashram, Pune, in India) dove farà esperienza di stili di vita alternativi al frenetico turbinio che stringe l’intero pianeta in una morsa d’acciaio.

Parole ormai desuete come pace, gioia, armonia, prosperità finiscono di essere pensate come stravaganti utopie di visionari predicatori del deserto, si scopre che la terra può essere coltivata rispettandola, gli animali amati come solidali collaboratori dell’uomo, i bambini abituati ai valori più sani della convivenza civile, servire gli altri può davvero essere quello che Gandhi riteneva “il modo migliore per trovare te stesso”.

Al suo ritorno a New York la nuova Juliet sa bene come intitolare il suo reportage: “Le città della luce.Una speranza per il futuro”.

Inutile esercizio di pedanteria sarebbe sottolineare, del film, alcuni evidenti difetti nella sceneggiatura e i limiti di una recitazione abbastanza stereotipata da parte dei personaggi di finzione.

La singolare inversione del regista rispetto al suo genere di elezione, l’horror, crea inevitabilmente qualche cortocircuito nella confezione, ma è ben poca cosa rispetto al messaggio forte che resta ed emoziona, aderente com’è alla verità di un sogno che si traduce ogni giorno in realtà per decine di comunità sparse nel mondo.

E’ dunque quanto mai rispondente al vero il giudizio, che facciamo nostro, di un addetto ai lavori, il regista e sceneggiatore Giacomo Campiotti: “Finding Happiness è molto più di un film. E’ un documento rivoluzionario che dimostra che la felicità non è un’ utopia. Da vedere e rivedere fino a quando non capisci che il protagonista sei tu”.

 

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