Cambio di rotta per Damien Chazelle, il giovane e acclamato regista franco-statunitense autore di due film che sono stati decisamente apprezzati dalla critica e dall’Academy, Whiplash e La La Land, premiato con l’Oscar come miglior regia. O forse dovremmo parlare di un cambio di…orbita. Con il suo ultimo lavoro First Man (Il primo uomo), film che racconta la fase più intensa e cronicizzata del leggendario astronauta statunitense Neil Armstrong (interpretato da Ryan Gosling), il “first man on the Moon” del titolo appunto, Chazelle vira bruscamente da quella che per lui è stata una evidente (nonché fortunata, considerate le lodi di pubblico e critica) tendenza tematica, legata al mondo della musica. Ecco allora che un film come First Man non può non spiccare all’interno della sua filmografia come primo tentativo di approcciare un diverso tipo di racconto cinematografico e di mettersi alla prova con un genere diverso dal musical.
Il risultato è un film a suo modo essenziale, un biopic che si prende sul serio, come dimostrano i vari intermezzi tratti da filmati degli anni ’60, ma che grazie alla eccezionale regia di Chazelle si carica di un’energia sorprendente, sia emotiva che dinamica. Il regista orchestra un omaggio agli uomini che hanno reso possibile la missione destinata a diventare simbolo del progresso umano, senza per questo cadere nella tentazione di costruire un’opera magniloquente, intrisa di quel patriottismo che invade con facilità film biografici di questo tipo. First Man inquadra nella storia del ‘900 l’ambizioso duello tecnologico tra Stati Uniti e Unione Sovietica, coerentemente nota come “space race” ovvero “gara per lo spazio”, inserendo la leggendaria missione Apollo 11 in un contesto teso, fatto di malcontento civile, instabilità di finanziamenti per la ricerca spaziale e soprattutto, errori che hanno portato ad un buon numero di incidenti letali.
Chazelle ci tiene a ricreare un preciso quadro storico di fondo e deve prendere in considerazione tutto questo, specialmente quest’ultimo punto: il peso degli errori umani che ha costato la vita agli astronauti della Nasa si fa sentire in alcune delle sequenze più intense del film, ambientate nel vuoto dello spazio.
Queste scene, spesso scandite dal suono assordante di allarmi e macchinari in avaria, sono cariche dello stesso drammatico pathos che abbiamo recentemente riscoperto in un film come Dunkirk di Nolan. First Man non tralascia nemmeno il lato umano, cercando di mettere in primo piano i sentimenti e gli stati d’animo dei suoi protagonisti.
Chazelle si dimostra molto interessato alla figura di Armstrong padre di famiglia e marito: il ricordo della figlia piccola morta di cancro lo accompagna nelle sue missioni e aiuta a creare un profilo molto umano di un personaggio che tutti abbiano conosciuto nei nostri libri di storia.
Frequenti sono quindi le scene ambientate nel contesto familiare, che nel film spesso vengono sapientemente alternate a scene che mostrano i freddi interni dei laboratori e uffici della NASA. Un montaggio dinamico che rivela sin dalle sequenze iniziali la duplice natura di un film diviso tra il tentativo di ricostruire un ritratto emotivo del leggendario astronauta e la ricerca di una tensione drammatica che coglie perfettamente la violenza dell’ambizione e la paura dell’ignoto.
Damien Chazelle trova modo di conciliare le parti grazie ad una formidabile capacità registica, fondata su intuizioni efficaci che arricchiscono il film di elementi in grado di raccontare su più livelli questa importante tappa della storia dell’umanità (“one giant leap for mankind” per parafrasare lo stesso Armstrong).
Le inquadrature esaltano in particolare i dettagli e la cinepresa mostra i personaggi da vicino (il film presenta una collezione di bellissimi primi piani di Neil e della moglie Janet), focalizzandosi in modo speciale sugli occhi dell’astronauta, su quello sguardo sempre distratto da quell’affascinante corpo celeste che ha fatto innamorare tanto i poeti quanto gli scienziati.