Cosa significa casa per te? Inizia così Flee, con un uomo sdraiato su un tappeto che cerca le parole per definire qualcosa sepolto nei suoi ricordi. Amin prende un respiro profondo e inizia a raccontare la sua storia.
Siamo nel 1984 a Kabul, lui è un bambino, indossa le cuffie e il suo walkman, mentre corre tra le strade vestito con una camicia da notte appartenuta alla sorella, è travolto dal ritmo di Take On Me degli A-ha e da un indomito senso di libertà. Jonas Poher Rasmussen azzarda un’altra domanda, gli chiede di suo padre, Amin si irrigidisce, non è pronto, ma non importa.
Rasmussen, il regista, e Amir, anche se questo è solo uno pseudonimo, sono amici ormai da molto tempo. Si incontrarono su un treno quando ancora erano adolescenti e solo ora l’amico ha deciso di confessargli qualcosa che ha sempre trattenuto solo per sé. Non c’è fretta, è palpabile il senso di scoperta ogni volta che l’uomo rivela un frammento in più del suo passato e del suo presente, dando voce ai traumi a lungo nascosti.
È un racconto di formazione, il racconto di una vita. È nel dipanarsi di ogni ricordo che il corpo e l’identità dello stesso Amin si vanno ricomponendo, lasciando che il protagonista arrivi ad accettare la prospettiva di una vita finalmente felice e serena accanto all’uomo che ama.
Flee attraversa la guerra in Afghanistan con discrezione, esplorando i dettagli geopolitici e le terribili conseguenze che ebbero sulla popolazione ma non oltrepassa mai il contesto, mantiene sempre la sua attenzione su Amin, sui suoi sentimenti, sui contrasti che hanno animato ogni suo gesto e il suo istinto di sopravvivenza.
La sua famiglia infatti lasciò frettolosamente il paese quando i mujaheddin presero il potere all’inizio degli anni ’90, atterrando in quel teatro desolato e privo di legge che era la Mosca post sovietica. Il viaggio è solo all’inizio ma lascio al film spiegare perché la storia di Amin è rimasta nascosta per così tanto tempo.
Rasmussen fa qualcosa di particolare, evita quei meccanismi ben collaudati per mascherare l’identità del soggetto come l’illuminazione della sagoma, la distorsione della voce o la sfocatura, sceglie una forma ibrida, una combinazione di animazione e vecchi filmati di archivio, rendendo Flee un film straordinario.
Rivendica l’utilizzo dell’animazione come meccanismo, come strumento e non come genere e lascia che sia il suono delle loro voci ad assumere quella componente strettamente reale grazie a una serie di interviste molto intime, a volte sconnesse, che ci fanno precipitare nel mondo interiore di Amin.
Le conversazioni off the record apparentemente catturate da una cinepresa tenuta a distanza lasciano comprendere allo spettatore quello stato di dissociazione nel quale il protagonista ancora vive e con un po’ di ironia ci pone di fronte a come i segreti che un tempo costudiva siano ora allo scoperto e ciò che invece una volta condivideva apertamente è riposto al sicuro nella sua memoria.
Molte scene sono rese con un’animazione 2D, nitida, semplice, malinconica come quella utilizzata dal regista olandese Michaël Dudok de Wit nella Tartaruga rossa, ma a queste immagini spesso si sovrappongono vaghe figure a matita che delineano la sofferenza di una mente spinta a ricordare momenti dolorosi e forse ancora non totalmente interiorizzati o definitivamente perduti.
L’interazione di questi due stili più di molte parole restituisce le conseguenze di una bugia così a lungo celata. Non sono sicura che sia già successo, ma Flee merita tutte le nomination all’Oscar che ha ricevuto, Miglior film Internazionale, Miglior documentario e infine Miglior film d’animazione.
Flee di Jonas Poher Rasmussen (Danimarca, Francia, Svezia, Norvegia 2021 – 89 min – Animazione – Doc.)
Interpreti: Daniel Karimyar, Fardin Mijdzadeh, Milad Eskandari, Belal Faiz, Elaha Faiz, Elaha Faiz, Zahra Mehrwarz, Sadia Faiz, Georg Jagunov, Rashid Aitouganov