Dopo l’Andrea di Pazze di Me, minacciato da una famiglia di sole donne che gli impediscono di immaginarsi una vita di coppia e il Natale amaro in casa Sereni, Fausto Brizzi continua a giocare con l’antropologia del nucleo per immergersi in un impietoso racconto generazionale che sotto la superficie disimpegnata e il meccanismo oliato della commedia, come accade sovente nel suo cinema ritmicamente formidabile, nasconde uno sguardo amarissimo capace di raccontarci la fine di un sogno individuale e collettivo.
L’idea di sfruttare la cultura degli anni ottanta come propellente per inventarsi una nostalgia negativa ci è sembrata di grande forza, non solo per lo sguardo rovesciato che applica al cinema di quegli anni, quasi che Forever Young fosse una versione cinica, anche strutturalmente, del populismo vanziniano, tra l’altro già innervato di quello stesso cinismo.
Tutto il contrasto generazionale che Brizzi costruisce, mette al centro delle quattro storie narrate due figure apparentemente antipodali, Diego Dj (Pasquale Petrolo) e Giorgio (Fabrizio Bentivoglio), il pimo alfiere ultracinquantenne dei grandi successi musicali di una volta, anchor man radiofonico in declino e rimpiazzato da un supergiovane con il gusto della rottamazione battutara; nei motti di spirito delegittimanti del nuovo giovanissimo titolare della trasmissione una volta condotta da Diego, c’è tutta la violenza linguistica della generazione al potere, il “Fassina chi?” di renziana memoria, sintetizzato in un’attitudine chiarissima che trucida tutto quanto non sia allineato con il nuovo che avanza. Diego da parte sua continua a credere che il tempo non sia passato, mentre il suo capo, Giorgio, sta per raggiungere i cinquanta conducendo una vita sempre orientata alla novità. Dalla conduzione della radio di cui è proprietario, fino alla relazione che intrattiene con una diciannovenne, Giorgio dissimula la paura di invecchiare vivendo come un peso necessario l’ansia di sentirsi vivo, ma inventandosi la scappatella con una quarantottenne che gli ricorda quanto era bello il suono del vinile, la contemplazione dell’ascolto per l’ascolto, la puntina che si abbassa sul microsolco.
Ed è proprio su questa e su altre sequenze che dovrebbero attivare il romanticismo del “come eravamo” che Brizzi ci racconta figure tragicissime annichilite nel tempo; il ballo tra Giorgio e la sua coetanea sulle note Total Eclipse of the Heart di Bonnie Tyler racconta l’eclissi del tempo con la puntina che a un certo punto si inceppa, la stessa immobilità che attraversa l’appartamento occupato dal vicino di casa di Giorgio, interpretato da Riccardo Rossi e probabilmente fermo in una dimensione più antica della sua età. Rispetto al brutto film di Paolo Genovese dove questa stessa indeterminazione viene gridata dagli attori a chiare lettere, Brizzi si serve dei meccanismi situazionali della commedia per far emergere qualcosa di diverso, una frizione stridente che in Perfetti Sconosciuti arriva prima dell’immagine con un paternalismo insopportabile.
Il modo in cui per esempio viene costruita tutta la sequenza della festa di compleanno di Giorgio include un continuo rovesciamento di simmetrie che si concludono con quella visione tragica e allo stesso tempo visionaria della memoria: i filmini proiettati sul corpo di Giorgio, lo sguardo della quarantottenne sull’esplosione di una festa che è andata avanti senza di lei, controcampo iperreale e crudele.
E se alcune situazioni denunciano una costruzione troppo simmetrica, come tutto l’episodio che coinvolge Teo Teocoli e Stefano Fresi, rapporto generazionale invertito suocero/genero, è nella commistione irrisolta dei due elementi che il film risulta assolutamente riuscito, proprio perché la sovrapposizione e il contrasto, come quello generato dal compromesso “storico” tra Diego Dj e il suo rivale, evidenziano un vuoto, una mancanza, lo scarto irrecuperabile di due realtà chiuse nella loro visione.