Lo sai che diceva sempre mio padre? “Chi te lo dice che questa vita è meglio di quell’altra?”
L’ultimo film di Sergio Castellitto, Fortunata, scritto dalla moglie Margaret Mazzantini, sembra accogliere l’eredità del grande cinema italiano del passato, quel cinema neorealista che, in molte sue realizzazioni, amava scegliere come oggetto del proprio racconto figure di donne italiane protagoniste del disagio della società loro contemporanea. Madri di famiglia con la pelle dura, segnata dalle mille difficoltà di una vita dominata da povertà e sfortune di ogni sorta. L’accostamento di questo film alla Mamma Roma pasoliniana (nel quale recitava la grande Magnani) sorge spontaneo e non poteva non essere confermato dallo stesso regista, che ha dichiarato di aver voluto col suo Fortunata anche omaggiare il cinema di Pasolini ed in particolare quei suoi veraci protagonisti, quelle madri costrette a “fare la vita” e gli accattoni.
Non lontano dal Quadraro, “borgata” romana che fungeva da palcoscenico di povertà per prostitute e ragazzi di vita in Mamma Roma, Castellitto punta la sua cinepresa, raccontando la storia di un’altra donna, un’altra madre romana, ovvero Fortunata, la moderna gladiatrice trentenne di Tor Pignattara interpretata da Jasmine Trinca. La vita di questa donna, il cui nome riflette una sorta di amara ironia del destino, trascorre naturalmente tra mille difficoltà. È in particolare tormentata da una separazione difficile con un marito possessivo, ma non le manca la forza di andare avanti, alimentata da una bambina di otto anni e da una importante ambizione. Fortunata vorrebbe infatti mettersi in proprio, cercare stabilità aprendo un locale di parrucchiera, lavoro che nel frattempo è costretta a svolgere a domicilio e in nero. A peggiorare le cose, trascinando il film nella (non affatto benvenuta) direzione del melodramma, si aggiunge un’instabilità sentimentale nella quale la donna si trova intrappolata, dividendo i propri sentimenti fra tre uomini, l’ex-marito poliziotto, un giovane tatuatore con problemi di droga e lo psicologo della figlia. Quest’ultimo, che ha il volto di Stefano Accorsi, si guadagna presto l’affetto di Fortunata perché, ai suoi occhi di donna semplice, il medico diventa simbolo di certezze, garanzia di un tenore di vita diverso e dunque di speranza per lei e la sua bambina, speranza che torna ad essere costantemente insabbiata dal cattivo rapporto con l’ex violento e dall’immatura relazione con il debole compagno tossico, “er Chicano”, interpretato da un bravo Alessandro Borghi.
Certo non si direbbe che sia il cast a costituire la pecca di questa nuova pellicola del team Castellitto/Mazzantini: le interpretazioni in sé convincono e confermano il talento degli attori protagonisti. È certamente dunque meritato il premio come migliore attrice assegnato a Jasmine Trinca al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard: sulla sua interpretazione poggia l’intera struttura del film e Castellitto lo sa bene, dato che dedica molti primi piani al volto abbronzato e un poco trascurato della donna, la fisicità della quale è un elemento fondamentale di questo racconto, d’impatto molto più visivo che verbale. Jasmine Trinca indossa perfettamente le vesti del suo personaggio, quello di una madre guerriera e ostinata, affascinante e un po’ trasandata, ma non priva di una segreta dignità pronta a emergere nei frangenti più patetici.
Eppure, portando lo sguardo al di là della bravura attoriale e della interessante gamma cromatica adottata nel film, ci si rende conto di quanto ogni elemento della sceneggiatura della Mazzantini concorra a costruire un melodramma piuttosto stantio, non privo di situazioni stereotipiche già da tempo digerite dal pubblico. Una storia capace forse di emozionare, ma con formula riciclata: si ha la sensazione di aver già visto gli abiti e la sagoma di questa Fortunata, il suo modo di camminare, la capigliatura e quell’espressione mista di disperazione e determinazione. Si ha la sensazione di tornare dalle parti di un racconto già sentito, un romanzo popolare ambientato in una Roma che diventa a tratti caricatura di sé stessa, una capitale che si direbbe in alcune scene più sorrentiniana che non pasoliniana.
Del grande regista manca il verismo, manca una rappresentazione naturale di eventi e persone, sostituita in sceneggiatura da personaggi che incarnano stereotipi dei quali ormai il cinema più mediocre (specialmente italiano, dobbiamo ammetterlo) è veramente saturo. Il soggetto della Mazzantini imbastisce uno scenario melò dal gusto vagamente grottesco, nel quale non mancano soluzioni narrative scontate (il triangolo sentimentale, la fuga con l’uomo ricco e di successo, persino il finale) e, soprattutto, personaggi di una banalità e stereotipia tanto spiazzante da privare il film di una genuina carica empatica.
All’appello dei luoghi comuni mancano in pochi: lo psicologo interpretato da Accorsi sembra una di quelle figure onnipresenti nei nostri drammi all’italiana, uno specialista acculturato e di successo, capace col suo buon cuore (è persino andato in Africa in missione umanitaria) di risollevare le sorti della donna del popolo di turno, bella, povera e sciagurata come potrebbe esserlo l’eroina di un romanzo realista. Uno psicologo che certo non segue l’impronta del ben più credibile psicoterapeuta interpretato dallo stesso Castellitto nella serie In treatment.
Riguardo il resto del cast, per quanto bene interpretati, i personaggi dell’ex-marito di lei (ottima prova di Edoardo Pesce) del Chicano e dello specialista restano anch’esse figure prive d’uno spessore credibile, ingranaggi di un melò che ingrana così prevedibilmente bene da lasciare soddisfatto solo il pubblico meno esigente, quello che magari si accontenta di riscoprire in questa figura di donna forte le ombre delle precedenti (perché immancabili) figure femminili della filmografia di Castellitto. Un personaggio, accompagnato nella sua caduta finale dalla stanca (e stancante) melodia di Vivere di Vasco Rossi, dalle sfaccettature più “letterarie” che autenticamente contemporanee. Una protagonista forte di un romanzo forse troppo debole, una storia nella quale si ha la sensazione di assistere ad uno spettacolo un po’ troppo sopra le righe ed un po’ troppo lontano da un’emotività e una tragicità concreta, vera.