Bennet Miller entra subito dentro lo scontro tra Mark e David Schultz, con quel colpo secco che fa sanguinare il secondo durante un allenamento mentre il suo equilibrio agonistico non vacilla di un millimetro.
I corpi e le mosse del wrestling delineano la sostanza delle relazioni nella tragica vicenda che sconvolse le vite dei fratelli Schultz; da una parte Mark (Channing Tatum) con la sua voglia di riscatto e la gelosia nei confronti di David (Mark Ruffalo); dall’altra il fratello maggiore che mantiene sino in fondo un’etica del combattimento legato alle regole e alla protezione della famiglia.
L’intrusione del miliardario John Du Pont (Steve Carell), appassionato di Wrestling e turbato dal rapporto conflittuale con la madre (Vanessa Redgrave) non farà altro che esacerbare questo squilibrio, insinuando il germe del dubbio e una percezione distorta del gioco, tutta incentrata sulla conquista di un ruolo d’eccellenza che superi l’intensità della lotta. In fondo Miller mette a confronto due concezioni famigliari, quella di David Shultz e quella dell’impero Dupont e non lo fa insistendo sull’approfondimento psicologico dei personaggi, ma rivelandoci attraverso lo spettacolo dei corpi molti più dettagli, basta pensare agli allenamenti nella tenuta di Newton Square e al modo in cui Du Pont cerca di prenderne parte con la necessità spasmodica di un contatto fisico, quello stesso contatto che davanti agli occhi della madre assumerà quasi il valore di un rituale erotico, uno spettacolo impudico a cui la donna a un certo punto si sottrarrà e che rivelerà l’esibizionismo e contemporaneamente il dolore del figlio, nella sua impossibilità a trovare una collocazione per i propri propri desideri. È la stessa Jean Du Pont che dirà al figlio quanto disprezza il wrestling, “uno sport volgare”, un rimosso scomodo che Bennet Miller indaga con lo stesso interesse antropologico del Paul Thomas Anderson di Boogie Nights; c’è in effetti una forte somiglianza tra i due film, nel raccontare il cuore nero dell’America attraverso una tragedia consumata all’interno di una comunità circoscritta, dove il luogo di transito è quello di uno spettacolo popolare, ma allo stesso tempo marginale, estremo, borderline.
Al di là del tragico epilogo, che arriva quasi inaspettatamente e senza un climax tensivo che ne anticipi l’esplosione, Foxcatcher sembra costantemente innervato da una tensione sottile, un malessere che si percepisce attraverso gli spazi enormi e algidi della palestra, le strutture di Newton Square, il lusso ostentato che amplifica il vuoto di senso e parallelamente il lento scivolare di Mark in una dimensione depressiva che tende a mortificare il suo corpo, a renderlo irriconoscibile, come sintomi di una marcescenza in atto.
Non c’è posto in questo lento sprofondare per i valori di David, legati alla funzionalità di una missione rispetto all’orchestrazione di una carriera di successo, semplicemente perché per Miller, il centro del film non è rappresentato dalla soppressione di David né dall’azione omicida di Du Pont, non a caso come si diceva, svuotate di qualsiasi tensione drammatica; il regista americano è più interessato alla formazione di Mark, figura alla ricerca di un’identità il cui declino coinciderà con una trasformazione che lo porterà nuovamente sul ring dopo la morte del fratello. Pronto per lo spettacolo, emergerà dai fumi di una nebbia finta per battersi con un nuovo antagonista; completamente rasato a zero emerge dall’opacità come un eroe, la cui essenza porta dentro di se tutte le contraddizioni di un paese.