A otto anni di distanza da Lebanon, leone d’oro a Venezia 66, l’israeliano Samuel Maoz torna con il suo secondo lungometraggio, dopo la parentesi collettiva di Future Reloaded e un cortometraggio.
Dalla “stereorealtà” della guerra osservata attraverso il mirino di puntamento di un carro armato israeliano, alla definizione geometrica degli interni che lo stesso mezzo bellico scopriva attraverso una geografia apocalittica.
Quella predeterminazione del reale che era costata a Maoz un lunghissimo processo di lavorazione torna in Foxtrot con la stessa modalità di controllo dello spazio.
Gli interni della casa in cui vivono Michael e Dafna registrano la simmetria prima della catastrofe; quando la porta dell’appartamento si apre, il volto di Dafna copre un dipinto le cui linee sembrano disegnate pensando alla teoria del caos, mentre le regole proposte dall’esercito per superare la brutalità dell’annuncio cercano di portare nuovamente ordine.
Jonathan, il giovane figlio della coppia, è morto mentre svolgeva il suo dovere in una postazione di controllo israeliana, Maoz segue da vicino lo spaesamento e l’atroce dolore del padre, la perdita del controllo, il calcio assestato all’amato cane, l’annichilimento.
Ma il destino, sembra suggerirci Maoz dopo i primi tesissimi e allo stesso tempo, rarefatti venti minuti, segue traiettorie imprevedibili, come nelle figure del Foxtrot, ballo circolare che torna certamente “sui suoi passi”, ma che consente una continua serie di variazioni, in base allo spazio, il suo stesso affollamento e la lunghezza variabile dei movimenti.
Il tempo allora può sovrapporre la falda del sogno a quella del desiderio o far collidere la memoria con la dimensione affabulatoria di una graphic novel, dove il segno assume il valore di una premonizione o al contrario di una rielaborazione fantastica dell’esistente politico, sociale e privato.
Alla chiusura dello spazio domestico, dove le linee del pavimento e gli arredi sembrano arginare il bradisismo dell’anima, Maoz oppone la descrizione di una meta-temporalità Beckettiana incorniciando, letteralmente, il lavoro alla frontiera entro la figuralità dell’assurdo.
Accezione negativa, per quanto ci riguarda, perché chiude il film nel quadretto autosufficiente. Dov’é, nel cinema di Maoz il fuori campo? Da dove arriva l’immagine e sopratutto, quando si libera verso il vuoto, la sospensione o la permeabilità di tutti i livelli che vorrebbe sollecitare?
Poco importa compiere un’analisi di tipo letterario sul puzzle di riferimenti storico-politici, esercizio faticoso e privo di senso.
L’occhio, ossessionato dalla sua permanenza, disinnesca continuamente la libertà caotica del cambiamento e non si fa carico di quello sprofondare quotidiano a cui assistono i ragazzi alla frontiera, mentre calcolano il livello della baracca dove vivono, con il tempo di percorrenza di un barattolo di alimenti da un punto all’altro della stanza.
Il punto di vista che Maoz sceglie è quasi sempre frontale; attento alla composizione dell’immagine, salda l’attesa in un continuum di natura visuale.
Lo sguardo è altra cosa.