Seguendo rotte ondivaghe le correnti hanno spinto l’arca dal Bojimans Van Beuningen Museum di Rotterdam (Elegy of a Voyage, 2001) all’Hermitage di San Pietroburgo (Arca russa, 2002).
Finis terrae, alle spalle dell’ Hermitage il mare ha chiamato a nuovi viaggi.
Giunti all’ultimo quadro della monumentale teoria di sale in cui la memoria di Pietro il Grande e della zarina Caterina si è esaltata, la voce dell’Uomo ha invitato il Marchese, compagno di avventura:
– Andiamo avanti – ha detto
– Io rimango qui – ha risposto il gentiluomo con voce ferma.
– Addio Europa – ha sussurrato allora la voce – è tutto finito … –
Ma il mare oltre quei muri aspettava, e le ultime parole di Arca russa spingevano verso occidente:
“Guardi, c’è il mare tutto intorno … e dovremo navigare per sempre, e vivere, per sempre.
L’approdo è stato il Louvre, Francofonia, le Louvre sous l’occupation.
Torna la meditazione di Kandinskij: “Quando la religione, la scienza, la morale (quest’ultima ad opera dei colpi vigorosi di Nietzsche) vengono scosse, e quando i sostegni interni minacciano di crollare, l’uomo distoglie lo sguardo dall’esteriorità e si rivolge verso sè stesso”.
In sè l’uomo trova il coraggio per nuovi approdi, anche quando tutto sembra impedirlo e il tramonto dell’Occidente è diventato una notte cupa.
Siamo nel 1943, uno degli anni più bui della storia d’Europa. Nelle stanze del Louvre si affrontano due uomini, il direttore del Museo, Jacques Jaujard (Louis Do de Lencquesaing) e il Conte Franziskus Wolff-Metternich (Benjamin Utzerath), rappresentante delle forze naziste di occupazione. La storia del loro incontro è il nucleo centrale del film. Uomini di grande fascino, dapprima nemici, scopriranno l’amicizia su quel terreno comune che da sempre ha reso l’uomo cittadino del mondo, ed è l’amore per l’arte, la vocazione a preservarla e la determinazione nel perseguire questo obiettivo. Con lucida lungimiranza, già nel 1938 Jaujard aveva messo in atto un piano di salvataggio, distribuendo gran parte delle opere fra il castello di Chambord e altri castelli nella Valle della Loira. Il Museo fu inoltre dotato di tutto il necessario per la difesa dai bombardamenti, e quando nel ’40 arrivò Wolff-Metternich, curatore della Renania, ad organizzare il Dipartimento per la protezione delle opere d’arte, l’attenzione alla difesa delle opere raddoppiò.
La Germania era stata ampiamente depredata dei suoi tesori da Napoleone, la Prima Guerra Mondiale aveva già fatto parecchi disastri e gli uomini del Terzo Reich amavano l’arte, o forse solo la gloria e il prestigio che ne derivava. Certo per una felice e unica congiunzione astrale, le collezioni del Louvre, e con esse le più profonde radici millenarie della storia d’Europa, si salvarono. La storia dei rapporti fra il Commando Reichsleiter Rosenberg preposto alla confisca delle opere d’arte e il direttore del Museo è lunga e travagliata, ma emerge su tutto la posizione singolare di Wolff-Metternich, che non esitò ad ostacolare le mire predatrici dei suoi stessi superiori finendo per essere rimosso da Parigi. Con Francofonia Aleksandr Sokurov scrive un nuovo capitolo del suo poema sull’uomo, sulla vita e la morte, il tempo e l’effimero, e rende inoltre giustizia ad un uomo rimasto nell’ombra, Jacques Jaujard, sconosciuto piccolo grande eroe che fece trovare ai nazisti solo cornici vuote, dando anche un gran dispiacere al governo collaborazionista di Vichy, desideroso di fare graditi regali ai nuovi padroni.
Già il regista ci aveva fatto conoscere un antenato illustre di Jaujard, Hubert Robert, uno fra i pittori da lui più amati. Membro dell’Accademia Reale, nominato “Disegnatore dei giardini del re” e “Custode del Museo e Consigliere per l’Accademia”, fu uno dei primi curatori del Louvre. Lasciò un numero enorme di tele, molte di grandi dimensioni, dal pavimento al soffitto. Di lui Sokurov aveva raccontato la storia nel 1996 in un breve frammento, come per accordare gli strumenti in vista del grande pieno orchestrale di Francofonia. E’ Hubert Robert. Una vita felice in Storie dal Museo dell’Hermitage, Saint Pétersbourg. Fu dopo una serata con amici al teatro Nô, in una primavera fredda e fiorita, una promenade fra i quadri di un’esposizione con la mdp in spalla: “Robert era un uomo felice, coincideva con la sua epoca, non l’ha sopravanzata di un passo, marciava con lei. Giorno dopo giorno la vita fluiva, gli anni passavano, egli aveva già gloria e denaro e successo, tutti lo amavano, aveva un carattere facile, un umore gaio, aveva vigore e capacità …
Un’ ombra è caduta sulla sua vita.
All’improvviso, uno dopo l’altro, tutti i suoi figli sono morti, Gabrielle, Adélaide, Charles e Adéle.
Napoleone sale al potere, manda via Hubert e la sua donna dall’appartamento al Louvre che amavano tanto, dove erano vissuti più di 25 anni.
Nel 1808 morì vicino al suo cavalletto di pittore, forse perché la vita era finita.
Sì, aveva finito di giocare al vecchio gioco, solo l’odore degli alberi in fiore è rimasto”.
Jacques Jaujard è ora il tramite per riannodare il filo del lungo discorso sul cinema e il suo rapporto con la pittura. Veicolo della relazione tra autore e spettatore, l’immagine cinematografica per Sokurov è una linea fantastica continuamente variata che opera profondamente sul livello connotativo. L’evento emotivo ha la stessa singolarità e complessità di ciò che il pittore imprime sulla tela, e se “il colore è il mezzo per influenzare direttamente l’anima“, nel cinema otterrà lo stesso primato. Accanto al regista c’è ancora Bruno Delbonnel, già con lui in Faust. Il romanzo visivo narrato dalla sua fotografia, i colori, le luci, il loro trattamento, l’audacia visionaria e la maestria nell’uso delle tecniche, digitali e non, che diedero vita ai suggestivi scenari da pittura rinascimentale olandese del Faust, ora, lungo le sale del Louvre e nel ripercorrere momenti della Storia d’Europa, sanciscono ancora l’unicità dell’incontro fra i due Maestri. Il discorso sull’arte che modifica, trasfigurandole, le forme della realtà, le arricchisce di ellissi e di allusioni, ne completa il significato piegandole alle più svariate esigenze narrative, in Francofonia è al servizio di una rêverie che intreccia Storia e finzione, mentre si interroga sul suo valore e sul dovere dell’uomo di salvaguardarla. “Francofonia è un collage più che un racconto in ordine cronologico, un percorso che segue i meandri fantasiosi del pensiero” ha detto il regista.
E poiché l’arte è il regno del mito, è la certezza della morte che costringe a “prestare orecchio ai mitologemi”, come direbbe Kerényi, cogliendo nella loro forza rivelatrice una promessa d’immortalità. Spazio dell’unica possibilità per l’uomo di accedere a quella dimensione mitica che annulla le barriere del tempo e resiste al cumulo di detriti e al confuso rimescolamento di luoghi e personaggi che la Storia produce, il Museo è deposito d’arte carico della sacralità di un tempio, luogo dello spirito, regione della nostra mente a cui siamo legati per una sorta di istintivo radicamento. La sua sopravvivenza al tenace logorio della filosofia e l’atemporalità che lo contraddistingue lo rendono accesso privilegiato alla coscienza del popolo, perchè delineano le forme in cui la civiltà si pensa e si esprime.
Ma purtroppo il tempo reale batte alla porta e uno smarrito senso di disperazione ci invade considerando le sorti recenti di tanti altri tesori che non hanno avuto la stessa sorte:
“… i palazzi crollano, Babilonia, Ninive, Troia… e la grande casa di Cesare… tutto crolla e giace… dove Clitennestra spiava l’arrivo del suo signore e vedeva avvampare sulla collina … noi vediamo soltanto le zolle … perché Agamennone è andato via al galoppo ...”.
E’ la vicenda, posta in apertura, della nave che affronta la tempesta e infine affonda. L’Autore parla con l’Amico a bordo, il collegamento è difficoltoso e l’immagine scomparirà ben presto. Con la nave e con il suo carico prezioso d’arte museale scompare la speranza per l’uomo di sconfiggere il tempo: “Persino nei momenti più difficili di quella guerra questi due uomini, non così politicamente influenti, sono stati invece in grado di fermare l’aggressione e di conservare la grande collezione d’arte del Louvre.
Quanto profondamente ci dispiace che nulla di simile sia accaduto in Unione Sovietica, in Polonia o nel resto dell’Europa dell’Est.”