È di un mese fa la notizia di una funzionaria comunale del Kentucky, incarcerata perché si rifiutava di celebrare matrimoni per coppie dello stesso sesso. La storia di Freeheld comincia molto prima che la Corte Suprema degli Stati Uniti formulasse la sentenza del giugno scorso, quella che garantisce il matrimonio come diritto costituzionale anche per le coppie dello stesso sesso, ma si colloca in un contesto ancora molto caldo anche per gli Stati Uniti d’America.
Se dovessimo quindi stabilire l’importanza del film di Peter Sollet in termini squisitamente civili correremmo il rischio di nasconderci dietro la retorica delle “opere necessarie”, per come ne parlavamo a proposito di Annie Parker.
Il livello di empatia può essere quindi simile a quello ricercato dal film di Steven Bernstein, ma con un’attenuante squisitamente strutturale che per ragioni opposte, rischia di diventare un’aggravante. Come tutti i courtroom drama, Freeheld raffredda le dinamiche più emotive del melò e le bilancia nello sviluppo del dibattito sociale. Il confine tra i due generi è chiaramente percepibile dopo l’idillio tra Laurel Hester (Julianne Moore) e Stacie Andree (Ellen Page), quando la convivenza si trasformerà in tragedia. Il tumore di Laurel diventa quindi il motore per immaginarsi il cambiamento, perché la lotta per garantire la trasferibilità pensionistica alla compagna, mette drammaticamente in relazione i tempi della vita con quelli delle leggi.
Eppure, la sensazione che uno sceneggiatore come Ron Nyswaner (Philadelphia, Fuga D’inverno, Mal D’amore, Il Velo Dipinto) avrebbe potuto forzare maggiormente i margini grazie alle capacità visionarie di un regista più coraggioso, rimane costante per tutto il film. A Freeheld manca infatti il rischio dello sconfinamento e la ricerca della verità attraverso lo scambio tra realtà e finzione, uno scarto che il melò consente proprio per eccesso, non importa se trattato con il rigore confessionale di Jonathan Demme. Sollet preferisce mantenere una distanza accorta, raffreddando tutto e affidandosi al talento delle due attrici quando si sofferma sui loro confronti. In quei momenti è possibile individuare un piccolo spazio di verità che definisce un altro film possibile, perché al contrario, è il dialogo e la parola che sostituiscono il cinema.
Se da una parte Sollet sembra giocarsi tutte le carte dell’emotività nel discorso pubblico di Laurel e Stacie, l’unico personaggio che si fa carico di una dolorosa trasformazione anche interpretativa, è quello di Dane Wells, il poliziotto “cattivo” interpretato da Michael Shannon, la cui resistenza si trasforma in vicinanza empatica con una risonanza tra sguardo e corpo che manca per quasi tutto il film.