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Fuck you prof di Bora Dagtekin: la recensione

Il titolo “tradotto” per il mercato italiano del secondo film diretto da Bora Dagtekin è probabilmente quello più innocuo e infedele. Il primo capitolo di Fack ju Göhte , mentre il secondo è già sugli schermi tedeschi, è uscito anche nei paesi anglofoni cercando di rendere lo stesso “mispelling” con un “Suck Me Shakespeer“, in entrambi i casi molto efficaci nel delineare l’anarchismo furibondo del progetto, anche se nella versione originale, il riferimento si aggancia al nome della scuola superiore in cui si ambienta il film, quasi ad indicare un più generale “Fuck you School”.

A trainare la scorrettissima commedia pop del regista di origini turche c’è Elyas M’Barek, attore di fama anche televisiva consacrato dalla situation comedy del 2006 intitolata “Türkisch für Anfänger“, qui affiancato dalla bella Karoline Herfurth nella parte di un’insegnante votata ad una missione impossibile, quella di affrontare il disastro della scuola attuale con metodi etici. Elyas M’Barek è Zeki Mueller, piccolo delinquente appena uscito dal carcere dopo aver scontato una pena di tredici mesi. Nel tentativo di recuperare il malloppo di una rapina, sepolto sotto la palestra neo-costruita di una scuola superiore, si fa assumere come insegnante nella struttura grazie alla totale mancanza di regole e verifiche della direzione scolastica, letteralmente asserragliata in ufficio con un sistema di video sorveglianza che ci racconta, sin da subito, le condizione emergenziali del contesto, in fondo non così diverse da quelle di una suburbia pericolosa e multiculturale. Zeki si vede affidato la classe più difficile, mentre la dolce Lisi (la Herfurth) cerca di interagire con il rozzo insegnante infondendo buoni consigli sul ruolo essenziale di un percorso formativo.

Tutto il film si sviluppa su questa dinamica, cara a moltissimo cinema statunitense politicamente scorretto ma umanissimo, dove la ricerca della verità risiede proprio tra demenza estrema e racconto di formazione. I mezzi poco ortodossi di Zeki sono in fondo quelli imparati per la strada, nel carcere e nei night club che frequenta tra amiche prostitute e strozzini. Quando li replica, mettendo in scena una lotta esilarante e furibonda con la classe, a partire dai colpi di vernice sparati da un fucile di precisione, sembra di assistere ad una versione parodica e screanzata di quella tensione che attraversa una lunga traccia filmografica, dai Giovani Guerrieri di Jonathan Kaplan alle classi difficili di Cantet e Rok Bicek.

A prescindere dai mezzi e dal linguaggio, Bora Dagtekin tende sicuramente al crescendo deflagrante con un equilibrio magistrale tra spessore dei personaggi e catastrofe, tanto da disseminare il film di continui motti di spirito e riferimenti di ogni tipo, a partire dalla studentessa più rozza di tutta la truppa, la biondissima Chantal Akerman, ma sopratutto con una percezione dello spazio performativo molto precisa e legata alla commistione dei generi. Dal cinema carcerario (il buco scavato da Zeki per tutta la durata del film) ai numeri di danza/lotta da West Side Story in poi (lo scontro tra “Bad Girls” per difendere un manipolo di matricole) passando ovviamente dai college movie fieramente più triviali, fino all’irriverente irrisione di certo cinema giovanilistico, con l’irresistibile versione “fluorescente” del Romeo e Giulietta Shakespeariano, delirante piece studentesca tra street culture e sintesi fumettistica, probabilmente uno dei momenti più divertenti di tutto il film, dove i continui colpi assestati sulla carcassa della Kultur arrivano all’apice.

È difficile quindi immaginarsi Fuck you prof come una dolente parodia dell’attuale sistema educativo osservata da una prospettiva giudicante, al contrario l’anarchismo divertito di Bora Dagtekin, oltre ad affidarsi al continuo s-montaggio del meccanismo comico, individua un crocevia mutante tra formazione e linguaggio stradaiolo, senza quel moralismo asfissiante che avrebbe potuto puntare comodamente il dito sulle nuove generazioni, amplificandone la deriva. Quando l’insegnante più anziana, stufa delle continue angherie che deve sopportare, si getta dalla finestra in un’irresistibile sequenza dove per un attimo il succo di mirtillo versato dietro la testa sembra una densa pozza di sangue, le ultime parole che pronuncia prima di essere issata sull’autoambulanza si riferiscono alla scuola come ad un organismo che uccide: “Insegnare è morire. Sono tutti mostri”. Ecco che i mostri sono quindi gli allievi e gli insegnanti senza troppe distinzioni e  la scuola diventa un campo di battaglia, in una forma non così distante da alcune realtà suburbane internazionali, dove non ci sono più buoni ne cattivi, insegnanti e studenti, ma una microsocietà che cerca di incorporare più livelli semantici, mentre quello istituzionale, incapace ormai di comprendere le mutazioni in atto, si confronta con l’esibizione della forza e la cronica mancanza di risorse a cui tra l’altro il film di Bora Dagtekin allude intelligentemente in ogni momento, a partire dall’assunzione coatta di qualsiasi insegnante senza abilitazione, per affrontare un mondo da cui tutti scappano a gambe levate.

Dagtekin osserva il tutto attraverso la fotografia ultrapop di Christof Wahl, curatissima e con i colori sparati, e un senso dell’inquadratura e del dettaglio che sembra lavorare di cesello sul meccanismo comico e vertiginoso del set, basta pensare alla sequenza in cui il film “rallenta” e sorprende Elyas M’Barek e la Herfurth in un tête-à-tête all’interno di una macchina, osservati dalla prospettiva del parabrezza sfondato: un piccolo poeta trash e catastrofico.

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