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Fuorigioco di Carlo Benso: la recensione

A cinquantacinque anni Gregorio Samsa assiste alla sua metamorfosi. L’evento che innesca il meccanismo del cambiamento è l’improvviso e inaspettato licenziamento dall’azienda alla quale ha dedicato la sua carriera professionale. Di fronte al vuoto di giornate che scorrono via inutili, di fronte a nessuna prospettiva concreta, di fronte a un riscatto solo agognato ma impossibile da realizzare, Gregorio finisce vittima di una spirale di paranoie e ossessioni che lo conducono al crollo di tutte le certezze e all’emergere di pulsioni distruttive.

È un’opera prima che lascia il segno, quella di Carlo Benso. Fuorigioco è un film che si muove sul crinale di temi attuali e socialmente scottanti, con un linguaggio che adotta con disinvoltura e coerenza molti codici cinematografici, senza mai risultare ridondante.

I riferimenti kafkiani non si esauriscono solo nel nome del protagonista. Benso struttura l’intero film sul percorso degenerativo del suo personaggio, interpretato con ottima immedesimazione da Toni Garrani. Se la perdita del lavoro influisce sui sentimenti, sulla psicologia, sulle relazioni sociali di Gregorio, il discorso portato avanti dal regista si fa più ampio e coinvolge la critica al sistema capitalistico, allo spettro della crisi usato troppo spesso per giustificare scelte che rovinano una persona.

Film coraggioso, e anche ben girato, Fuorigioco è un film di sguardi, come a voler recuperare una dimensione umana in un mondo pieno di tradimenti e istinti repressi. Tante le soggettive, i raccordi sullo sguardo, l’utilizzo di emblemi della visione come lo specchio e la finestra dalla quale Gregorio spia con sempre maggiore insistenza la giovane vicina di casa. Lo sguardo viene però gradualmente depotenziato, diventa il ricettacolo delle pulsioni negative, si affaccia su un ambiente privo di spessore, degradante.

La spersonalizzazione è accentuata dalla reiterazione del colore bianco che emerge con gran forza nelle scene ambientate sul luogo di lavoro, offrendo un senso d’alienazione. Gregorio è un epurato che non accetta la sua condizione: non si rassegna come i suoi colleghi ai quali è toccata la stessa sorte. Non ha un interesse dal quale ripartire. Il castello di carta della sua vita crolla assieme a lui e neanche l’amore della sua donna lo riesce a salvare. La metamorfosi avviene giorno dopo giorno e si fa sempre più drammatica. Solo e incompreso si rifugia dentro se stesso ma, inevitabilmente, affiorano in lui le angosce, gli spettri, le ossessioni.

E se il piano della sessualità diventa il terreno in cui il processo degenerativo trova la sua più alta espressione, c’è un altro aspetto, altrettanto importante, che Benso mette in evidenza: ogni personaggio che Gregorio incontra cede all’individualismo, vive in una realtà arroccata in cui non c’è grande spazio per i contatti diretti tra le persone. Un mondo anestetizzato nel quale le uniche gesta di ribellione sono fine a se stesse, atti isolati. Il mondo esterno entra solo attraverso le notizie trasmesse dalla televisione che testimoniano guerre, alluvioni, scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Viene in mente Dilinger è morto di Marco Ferreri, ma qui la metamorfosi è più drammatica e lancinante perché non ha una via di fuga e tende alla cancellazione della propria identità, senza nessuna prospettiva di rinascita.

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