venerdì, Novembre 22, 2024

Fury di David Ayer: la recensione

Nell’aprile del ’45 gli Alleati sono ormai nel cuore della Germania.  Non lontani da Berlino, si scontrano con la resistenza ostinata di truppe tedesche superstiti, formazioni di SS rese ancor più feroci dalla certezza di non aver più niente da perdere. Nei paesi che le truppe attraversano pendono uomini e donne impiccati per tradimento ai pali della luce e agli alberi, da case messe a ferro e fuoco può capitare di veder uscire a braccia alzate file di bambini in divisa, la Hitler jugend, la “gioventù brutale, tiranna, intrepida e crudele” che Hitler sognava per i suoi “castelli dell’ordine teutonico”. Si può anche incontrare un amore fugace e forse era quello più importante della vita.

Lo scenario di Fury è questo, un pezzo di storia europea del ‘900 in cui, da barricate opposte, l’umanità si è confrontata con la parte peggiore di sè.
Kammerspiel su un massacro quotidiano, Fury è soprattutto un film di tanks, una coreografia di mostri d’acciaio gonfi di carne umana che procedono lenti, il cannone rotante da sinistra a destra per lanciare proiettili, uno tracciante ogni cinque, che si annodano come stelle filanti nell’aria grigia e opaca. Saltano casupole e palazzi, gli uomini diventano poltiglia di fango mista a sangue, intorno a uomini e carri in controluce non sembra far mai giorno.

Il tank è il re della guerra di terra, quello che nella Grande Guerra era stata la trincea.
E’ la casa del soldato, come in Lebanon, o in Alexandra, dove il nipote soldato porta in giro turistico la nonna arrivata in visita al campo. Si diventa pazzi, in guerra, o stupidi, o si smette totalmente di pensare.
Fury è una lunga litania di guerra, sembra impossibile che si riesca a declinare ancora una volta il tema più usato e abusato nella storia di tutte le arti del ventesimo secolo senza rischiare un fallimentare déja vu. Eppure questo non accade, perché Fury inchioda allo schermo con riprese che puntano al centro del più maledetto e sporco bubbone creato dalla mente umana, mostrandone tutto l’orrore con il lucido distacco dell’entomologo.

Fury è il nome del thank di Don Collier, quell’ex bastardo senza gloria di Brad Pitt. La scritta a mano in lettere bianche, cubitali, spicca luminosa lungo il cannone puntato al nemico.
Film di guerra senza gran combattimento, uomini anneriti dal fumo e abbrutiti dalla violenza ristagnano dentro le pance d’acciaio. Brevi e furenti scontri con gruppi superstiti di SS  si alternano all’esplosione di mine che rompono i cingoli, lasciando a terra il thank in un pericoloso isolamento.

Ayer racconta la coda più sporca della guerra, quella in cui si continua a morire con la pace in arrivo. Non issa bandiere né accampa ragioni o torti, i suoi uomini, quale che sia la loro barricata, sono intrappolati in una condizione aberrante e l’interno del tank dove si svolge gran parte dell’azione ne è la metafora.
Nulla del repertorio di paccottiglia bellica (eroismo, onore, esibizione di forza, sacrificio) sopravvive su quei sentieri fangosi, in quegli ospedali da campo dove si butta sangue a secchiate nelle pozzanghere fuori dalle tende.
La guerra non ha molto da dire, solo “Va’ e uccidi prima che ammazzino te ”, e questo è molto convincente, al punto che gli uomini obbediscono, perché convinti o perché non c’è altra scelta, poco importa.
Il focus è sui due protagonisti.
Brad Pitt, nella parte del sergente Don Collier, mascella dura e cranio rasato ai lati, dà una prova superba in una parte che ormai è sua per elezione. Logan Lerman è il giovane Norman dagli occhi azzurro-cielo che preferirebbe metter fiori nel proprio cannone piuttosto che sparare da quel M4 Sherman in cui l’hanno sbattuto a rimpiazzo del bombardiere morto. Norman era entrato nell’esercito come dattilografo, sessanta parole al minuto, sparare a bersagli umani non era nel suo mansionario. Ben presto dovrà capire quanto sia relativo il confine che separa il bene dal male.
Gli ideali sono pacifici, la storia è violenta”, gli ha detto brusco Collier dopo averlo costretto ad uccidere un prigioniero. La scena è forte, un lungo piano sequenza iniziale che fa da snodo strategico in una rete di interrelazioni fra personaggi di cui Ayer si serve per le sue esigenze narrative. In filigrana emergono implicazioni ideologiche, si delineano caratteri, i linguaggi individuali si caratterizzano.
Il contrasto fra Don e Norman si interseca su una linea di discorso relativa al problema se e in che misura Don debba rivendicare la sua autorità in quanto tale e per quale giusta causa si chieda a Norman di perdere la sua innocenza.
Problema etico di non poco conto intorno al quale Ayer si muove con misura, Norman resterà fino alla fine  figura di contrasto, anche quando imparerà che in guerra non c’è pietà e quelli del gruppo lo chiameranno “macchina”.
L’uomo non può che diventare macchina per sostenere la cieca insensatezza del vivere e riuscire a premere un grilletto, ma pur se iniziato a questa legge Norman resta un diverso, l’unico capace di far emergere quel grumo di umanità sofferente abilmente sepolto nel fondo del sergente Collier.
Nessun buon sentimento a strizzare l’occhio, però, nessuna istanza salvifica a bordo, ma neanche filippiche sul trionfo del male e il tramonto dell’umanità. Il pregio maggiore di Fury è il realismo, uno sguardo asciutto su miseria e nobiltà dell’uomo, servito da una scenografia che organizza la giusta mimesi negli spazi  e un uso delle luci davvero eccellente.
Il balletto dei colossi d’acciaio ripresi in campo lunghissimo nella pianura, schierati in ordine di combattimento, la panoramica dall’alto sull’ultimo thank rimasto, macabro ago di bussola al centro di un incrocio popolato di cadaveri, riesce a definirsi così come la forma più aggiornata di qualcosa che cominciò un giorno con la falange macedone e, di millennio in millennio, arrivò alle armate napoleoniche.
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo”.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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