Anne Fontaine ci prova ad avvicinarsi al mondo di Posy Simmonds, un tentativo che probabilmente nasce da intenzioni molto più calcolate su “Tamara Drewe” che non attraverso lo stile della nota illustratrice britannica, qualcosa si attacca comunque, ed era inevitabile se si considera il modo in cui Stephen Frears ha preparato il suo film, utilizzando i disegni dell’autrice inglese come un vero e proprio storyboard, ma di quella complessità psicologica che si delinea sopratutto attraverso il tratto, capace di infondere luci e ombre alle figure minori, rimane ben poco in questa Gemma Bovery, i cui personaggi vengono intrappolati in uno schematismo asfissiante, tipico del cinema della regista francese, che con Two Mothers aveva definitivamente toccato il fondo, realizzando un disastroso pasticcio tra eurotrash ed erotismo congelato.
E per quanto riguarda la morte dei sensi, la Fontaine casca nuovamente nella stessa trappola, organizzando il racconto secondo un meccanismo ad incastro dove l’erotismo, quando arriva, è un tassello come un altro, osservato ad una distanza raggelante e con occhio convenzionale, perché la demarcazione tra fantasia e desiderio è talmente chiara da risultare tutte le volte come una necessità didascalica.
Convenzionale è anche tutto il contenitore metatestuale, diversamente dal lavoro della Simmonds, che gioca abilmente con la posizione intermediale del fumetto, qui è esibito in superficie fin dall’inizio con l’assimilazione di Martin Joubert nel ruolo dell’autore che tutto dispone; è una caratteristica presente anche nella graphic novel, ma con uno slittamento di senso molto più complesso, che tende a creare una frizione durissima e nient’affatto conciliante tra il romanzo di Flaubert e la riscrittura in un contesto contemporaneo, oltre alla differenza culturale e sociale, la Simmonds costruisce una complessa stratificazione intorno al concetto di “copia” come lo ha analizzato Roland Barthes parlando di Bouvard et Pécuchet e di Madame Bovary; il fatto che la Gemma dell’illustratrice inglese sia a sua volta una decoratrice, spesso visualizzata durante il corso della storia nell’atto di creare, consente alla Simmonds di lavorare sulla psicologia del personaggio attraverso il segno, delineando una figura che da una parte cerca una spinta ulteriore e non accessoria per la propria vita, dall’altra intrappolata nella tecnica di riproduzione di simulacri artistici; senza scendere troppo nel dettaglio, la graphic novel decentra il ruolo vojeuristico di Raymond Jobert come un filtro negativo oltre il quale emerge una figura femminile controversa e sfaccettata e allo stesso tempo irride la presenza del diaframma letterario colto come strumento univoco di costruzione del senso.
Anne Fontaine, non coglie questi stimoli e si ferma proprio su tutti gli elementi di superficie, dal vojeurismo ai riferimenti letterari, collocando al centro la figura di Martin Joubert e riducendo il lavoro meta-testuale al suo sguardo, ovvero ad una relazione binaria tra la lettura di Flaubert da cui il panettiere è ossessionato e gli eventi che si svolgono nel piccolo paesino della Normandia di cui diventa, banalmente, il narratore; la relazione che si stabilisce è quella tra desiderio e visione, fantasia ed erotismo, con una demarcazione così banalizzante da trasformarsi nella solita, trita, riflessione sullo sguardo come veicolo del piacere con tanto di nota a margine conclusiva che dovrebbe avere il compito di frammentare la soggettiva di Joubert attraverso le tre figure maschili coinvolte, salvo disinnescare qualsiasi ambiguità con un paio di flashback che ristabiliscono la linearità del racconto.
Ma quello che è più grave, è il modo in cui Anne Fontaine irregimenta il corpo di Gemma Arterton relegandola sullo sfondo, neutralizzando il suo potenziale erotico e allo stesso tempo limitandone la complessità a causa dell’invadenza descrittiva di Martin, vero e proprio “Metteur en scène” la cui autorità viene messa in discussione solamente dai pochi elementi residui del lavoro della Simmonds. A contenenere la carica di Gemma, non ci era riuscito neanche il set a orologeria di J. Blakeson, dove l’attrice inglese nei panni di Alice Creed si ribellava al gioco autoritario del set, ingaggiando un fenomenale corpo-a-corpo. La Fontaine, bravissima solo a confinare i corpi in una dimensione pseudo-pittorica, distante, “flou” e oleografica, è assolutamente recidiva; tocca accontentarsi di qualche momento di luce grazie all’istintività dell’attrice inglese, ma sono davvero brevi sprazzi.