L’autobiografia nel cinema di Philippe Lesage lascia alcune tracce e allo stesso tempo si complica. “Genèse” regala un piccolo frammento conclusivo che si stacca dagli eventi narrati, come se fosse l’incipit di un episodio indipendente, ma la cui funzione è quella di illuminare tutto il racconto. Considerata autonomamente, quell’improvvisa connessione con il personaggio di Felix, racconta lo strappo tra l’infanzia di “Les démons” e l’ingresso a pieno titolo nei dubbi dell’adolescenza. Ancora una volta interpretata da Édouard Tremblay-Grenier, quella figura ha una qualità truffautiana, non solo in termini autobiografici, ma sopratutto per la costruzione mitopoietica che lega un film all’altro. I riferimenti all’esperienza personale dell’autore quebechiano non si fermano a questo improvviso inserto, per alcuni spettatori critici distratti ridotto al livello di un’enunciazione, perché sono disseminati tra tutti i personaggi del suo nuovo film, da Guillaume a Charlotte, con ambizioni più aperte rispetto all’ambiente spietato e per certi versi chiuso, entro cui si muovevano i protagonisti di “Les démons”. La crudeltà rimane al centro del cinema di Philippe Lesage, ma in una prospettiva maggiormente dinamica, come elemento di rottura o di comprensione del reale.
L’esperienza della meraviglia non può essere sottratta da quella della morte di tutti i sogni, ma non arresta l’ansia di libertà che spinge Charlotte a lasciarsi andare, anche a due passi dal baratro. Interpretata da una splendida Noée Abita, nuova speranza del cinema francofono già apprezzata in Ava di Léa Mysius, affronta le prime pulsioni amorose con il trasporto che precede l’elaborazione razionale. Charlotte vive attraverso lo sguardo e il tatto, cerca di assimilare il mondo creativo del suo ragazzo prima facendosi s/oggetto delle sue fotografie, poi provando i preziosi dispositivi con l’incoscienza del gioco. Ed è proprio l’attitudine a scompaginare il reale attraverso l’anarchia del gesto a infrangersi con una realtà che riflette inesorabilmente l’immagine di chi la abita.
L’ego del ragazzo di Charlotte oscilla tra il desiderio di allargare le possibilità di conoscenza carnale con altre persone e l’autismo che gli deriva dall’ossessione per la fotografia. Non c’è spazio per la giovane donna se non facendosi musa oppure porto di una sessualità sicura e a portata di mano. Lesage riesce a rivelare il dissidio tra libertà e passione, nello sguardo dolcissimo e malinconico di Noée Abita, la cui purezza determina un’orizzonte della visione di una flagranza rarissima.
L’universo maschile modellato sulle dinamiche predatorie, ancora una volta determina il destino della gioventù in cammino nei primi due lungometraggi di finzione diretti da Philippe Lesage. Il percorso di Charlotte in questo senso è un ostinato schiantarsi della libertà contro gli scogli del possesso: l’attrazione verso un mondo più adulto non sembra mitigare l’inesorabilità del sacrificio, dove l’istinto viene sostituito dalla consapevolezza dell’inganno.
Rispetto alla persistenza del male di “Les démons”, con il cuore nell’ideologia formativa della famiglia, la violenza sembra determinata maggiormente da scelte e possibilità. Se il mondo dell’infanzia è un Eden disseminato da alberi della conoscenza avvelenati, dove al divieto e alla chiusura iperbarica rispetto ai pericoli della realtà, corrisponde una violenza che si consuma ogni giorno proprio tra le mura domestiche, fuori da quel recinto di protezione gli ostacoli diventano irriconoscibili, più insidiosi, ma scaturiscono dall’indifferenza del possibile.
Théodore Pellerin è Guillaume, il fratellastro di Charlotte, più esuberante rispetto alla sorella, cerca di imporsi come un leader simpatico all’interno del college maschile che frequenta. Nel tentativo di nascondere una fragilità evidente si scontra con un contesto la cui brutalità emerge sopratutto dal corpo insegnante, incapace di cogliere le sfumature della conoscenza e ben rappresentato dal professore di Storia, i cui complessi si scatenano con la violenza di un ego ferito, contro Théodore e il suo tentativo di confessare sentimenti indicibili.
Lesage entra dentro un territorio minato e senza prendere la scorciatoia del melodramma, dimostra empatia per mezzo di un cinema distante, che non lusinga mai lo spettatore. Ci è sembrato formidabile il modo in cui il percorso di Théodore verso il riconoscimento della propria omosessualità, venga seguito sul crinale della percezione esterna, quella pronta a scambiare una richiesta d’amore con il perpetrarsi dell’abuso. La prima manifestazione di quell’urgenza, con tutto il caos emotivo che ne consegue, viene soffocata con la violenza da un occhio giudicante.
Il male è una questione di sguardo, sembra dirci Lesage e se il diavolo è nell’occhio di chi guarda, l’ansia di libertà viene rivelata come tensione insopprimibile e costantemente repressa da una crudeltà che eccede i confini dello stato di natura.
Ecco che il segmento finale, come se fosse un racconto nel racconto, oltre a proseguire brevemente il percorso di formazione di Felix, alter-ego del regista e possibile trait d’union in questo viaggio di emancipazione dalla violenza, investe di luce nuova le sofferenze di Charlotte e Théodore, illustrando la genesi come inizio di una storia personale e collettiva, ma anche origine di quel dualismo che confina la libertà di genere e la sua interpretazione nel solco di una narrazione già determinata.
Gli scout e quella separazione netta tra maschio e femmina, il contatto negato, lo sguardo come unica possibilità sostitutiva del desiderio.
Si conclude in un regno totalmente scopico Génese, con un bellissimo piano sequenza nel bosco, dove le due bambine del campo scuola si allontanano tra gli alberi e una delle due, voltandosi, guarda verso di noi sorridendo tra stupore e desiderio. Lo stupore per un desiderio appagato o l’ultimo sorriso prima di una minaccia distruttiva. Non ha importanza, perché quello che coglie nella sospensione improvvisa del senso, è l’attimo in cui la libertà si esprime come qualità irriducibile.