La produzione di un’improbabile soap romantica si arresta quando l’attore principale non riesce più ad andare avanti. Intrappolato con una troupe dallo scarso talento, sclera e cerca di abbandonare il set. A subire le conseguenze del repentino ammutinamento è l’assistente alla regia, timido e insicuro appassionato di cinema horror che deve sopportare il peso di un nome ingombrante: Akira Kurosawa.
Su questa omonimia, Paul Young di padre statunitense e madre giapponese, accende la miccia del suo primo lungometraggio, una commedia horror che sta facendo il giro dei festival specializzati.
Il giovane regista laureato all’università di Tokyo esaspera inizialmente i toni di certo v-cinema di bassa qualità e sfrutta con disinvoltura linguaggio e forme consentite dai dispositivi video, introducendoci sin da subito in quel tipo di estetica pulp che aderisce e allo stesso tempo si pone a distanza parodica rispetto ai modelli di riferimento.
Imbevuto di cultura cinematografica americana e giapponese, innesta tutti i riferimenti possibili in un tour de force demenziale che mette al centro il cinema della mutazione tra gli anni ottanta e i novanta.
Se il cuore demente del film richiama più di una volta le scelte della Sushi Typhoon, nella combinazione estrema di gore e trovate, Paul Young tiene a freno l’anarchia furibonda di quelle produzioni con un senso dell’inquadratura più preciso e misurato, fino a definire, in alcuni momenti, una dimensione grafica di notevole impatto “poetico”.
Akira Kurosawa, dopo essersi preso insulti dal cast e aver origliato i sentimenti negativi del produttore su un suo script horror ispirato al cinema di Tobe Hooper, sfoga rabbia e frustrazione, versando lacrime e sangue sul demone disegnato a mano che occupa la prima pagina dello script, sotto al titolo: Ghost Master.
Il disegno si anima come nella fusione tra live action e animazione in “House” di Nobuhiko Obayashi, trasformandosi lentamente in un libro con la maschera di un mostro in rilievo, quasi identico al Necronomicon immaginato da Sam Raimi per la saga di Evil Dead.
Il volume si attacca come una cozza al volto dell’attore principale prima che fugga dall’isola deserta dove è stato allestito il set, si trasforma in un mostro fallico, penetra la sua bocca, con la furia iconoclasta di un cartoon modifica i tratti del malcapitato in quelli di un’entità che ricorda Bughuul, il demone che emerge tra Super 8 e digitale nel “Sinister” di Derrickson, spingendolo a spappolare teste e uccidere ad uno ad uno tutti i membri del cast. Potremmo continuare a lungo, perché nei novanta minuti scarsi di “Ghost Master” il citazionismo estremo con cui Akira Kurosawa ha imbevuto il suo script, diventa carne, sangue e prostetica, materializzandosi nell’universo di Paul Young con l’accelerazione delle unità minime di significazione che già nei film di Rodriguez, per esempio, disintegrano il testo filmico in un database combinatorio di frammenti; prassi che al di là di tutte le nostalgie con alto o basso tasso di riconoscibilità, avvicina quel cinema alla relazione tra creatività e conoscenza, mediata dagli archivi digitali.
Sarebbe rischioso assimilarli attraverso la consunta categoria del post-cinema, proprio perché la generazione di Young fa i conti con un passaggio ulteriore, aprendosi alla forma totalizzante e “analitica” del post-digitale, nella ricerca di una forza vitale e umana che possa tirarci fuori dalla macchina ipertrofica diventata normativa.
Scappano dalle loro fantasie i personaggi di “Ghost Master”, scappa anche Paul Young dalla definizione di un cinema che non sia una disillusa presa per il culo di tutte le produzioni indipendenti.
Quando lo script della soap e quello horror si fonderanno attraverso una lunga sequenza di fantasiose mutazioni, la lotta tra amore e morte assumerà toni deliranti fino a recuperare l’estetica e alcuni concetti di “lifeforce”, il film dove Tobe Hooper aveva costruito la sua fantasia sci-fi intorno al corpo e all’erotismo di Matilda May. Nato da un interstizio produttivo della Cannon, “Space Vampires” resisteva entro la cornice dell’artigianato FX di John Dykstra e Tony Reading, ma allo stesso tempo anticipava il passaggio alla rivoluzione CGI tra blue screen e sfondi dipinti.
L’omaggio è dichiarato e scoperto lungo tutta la durata del film, ma l’inettitudine di Akira Kurosawa sembra cortocircuitare la stessa retorica dei racconti metalinguistici con una continua messa in abisso di nostalgie, memorabilia, brandelli di cinema senza più vita se non quella che abita l’ambiente rituale di qualsiasi youtuber, informato su ogni dettaglio, come l’anatomista all’obitorio.
Nel rispetto dei “classici”, Kurosawa insulta Tarantino e si lancia in una difesa ad oltranza dei cineasti che hanno formato la sua adolescenza, scagliandosi violentemente contro il produttore che piangendo, confesserà di conoscere solo Hou Hsiao-Hsien. Un atteggiamento che accomuna molti otaku legati alla propria chiesa di riferimento e che pagherà con la soppressione che meritano i pessimi registi.
Paul Young è lontanissimo dal Naderi di Cut intendiamoci, ma il gioco al massacro di quella dimensione cultuale legata alla lingua morta degli aficionados sfiora momenti ingiuriosamente divertenti. Non è niente di più né di meno l’ultima incarnazione del demone che comincia a prendere a pugni la soggettiva “incarnata” dello stesso Young, quasi ad identificare il fabbricante di fantasmi fuori dall’ultima cornice possibile, quella di chi mette a morte i figli degli altri, senza averli amati davvero.