venerdì, Novembre 22, 2024

Giovani si diventa di Noah Baumbach: la recensione

Una coppia di quarantenni newyorchesi (apparentemente realizzati), incontra (apparentemente per caso) una travolgente coppia di venticinquenni (apparentemente gentili). Scocca la scintilla e le loro quattro vite si mescolano. Ma non tutto è come sembra.

Travestito da commedia agro-dolce, Giovani si diventa – brutto titolo italiano che oscura l’afflato malinconico dell’originale While We’re Young – è, come lo era il precedente Frances Ha, un film intimista che mette al centro l’impossibilità di riconciliarsi con il proprio tempo o, meglio, l’ineludibile dissonanza fra tempo reale e vita vissuta. Si comincia con una citazione di Ibsen – la confessione del costruttore Solness che chiude la porta per non fare entrare i giovani – e con l’inquadratura di un neonato, figura quasi demoniaca (Rosemary’s Baby comparirà, non a caso, più avanti) che incanta e spaventa.

Il sapore post-alleniano del cinema di Noah Baumbach sta, in primis, nell’attenzione meticolosa alla psicologia dei personaggi principali, affiancati da una schiera di comprimari quasi macchiettistici (tra cui spicca un produttore sopra le righe che si atteggia a Don Draper). Stratificati e nevrotici, profondamente newyorchesi, impossibili da raccontare, forse. Ma, raschiata la patina superficiale, non troppo diversi dagli altri. Il motore narrativo del film sta tutto in quel che di imprevedibile nasce dal loro incontro fortuito. Josh (Ben Stiller) è un documentarista in crisi, affetto da un vago senso di colpa, incagliato da dieci anni sullo stesso film – un’intervista fiume a un sempre più anziano storico ebreo. Ha sposato Cornelia (Naomi Watts), la figlia del suo mentore, Leslie Breitbart. Cornelia è una produttrice di documentari che non accetta di invecchiare e si interroga ossessivamente sui pro e i contro della maternità mancata. Mentre la vita – “quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri programmi” – scorre, loro restano, tutto sommato, immobili. Jamie (Adam Driver) e Darby (Amanda Seyfried) sono un centrifugato di vitalità, geneticamente ottimisti, invariabilmente cool, vulcanici, destabilizzanti. Per arrestare il tempo che passa, per diventare candidi e generosi come i loro nuovi amici, per allontanare lo spettro di quel figlio mai nato, Josh compra un cappello da hipster e Cornelia si iscrive a un corso di hip-hop. Ma il vero segreto della fascinazione di Josh per Jamie arriva alla fine. Non si passa il tempo con dei ventenni per sentirsi più giovani, ma per avere attorno qualcuno che ci guardi come fossimo degli adulti. Peccato che lo si capisca troppo tardi.

In un quadro dove tutti non possono che cercare di essere quello che non sono, l’epicentro del film di Baumbach non è il rapporto fra verità e menzogna – orizzonti ieratici e lontani – ma fra autenticità e messinscena, fra memoria storica e ricostruzione soggettiva, fra sincerità e manipolazione. Il tema di fondo, continuamente rimasticato – “come si costruisce l’oggettività?”, (ma anche “Come possiamo evitare di farci del male?”) – è rilanciato, amplificato fino al paradosso, nella rappresentazione di una serie di figure che hanno fatto della passione documentarista il fulcro della propria esistenza. Costellato di riflessioni sull’essenza del documentario, rimandi a Godard, pensieri sul rapporto fra arte e fama, il film mette in scena lo scarto fra tre generazioni di registi.

Leslie, che ha raggiunto una serenità olimpica, siede accanto ai Wiseman e ai Pennebaker. L’irascibile Josh ha, forse, esaurito la vena ma conserva quel rigore che si traduce nell’accettazione passiva del dato e in un’incrollabile fedeltà ai fatti. Jamie è un furbetto dall’anima post-moderna, che copia, inventa, progetta, manipola, senza curarsi del confine fra realtà e invenzione. Non racconta bugie, crea sceneggiature, suscita emozioni. La pregustata vendetta di Josh non può che essere un fallimento. Il confronto con Jamie, scandito in lontananza dal discorso di Leslie, segna la definitiva cesura e lo scompaginarsi di vecchie alleanze, con il decano che sconfessa il genero e benedice il nuovo protégé.

Il cortocircuito fra arte e vita è alimentato da un’illusoria affinità elettiva fra le due coppie, che si traduce nella passione onnivora di Jamie e Darbie per i feticci delle decadi passate. Vhs, vinili, macchine da scrivere e vecchie biciclette. Gli scarti della generazione precedente sono recuperati, rimontati, diventando oggetti di un culto feticista e fighetto, di un’ansia citazionista che l’ingenuo, ormai ipertecnologico, Josh scambia per effettiva comunanza. Si parteggia inevitabilmente per lui, per il suo, tardivo, richiamo alla vita vera, al tradimento di affetti reali – “ma noi eravamo amici”, sussurra a un impassibile Jamie –, ma si capisce che è destinato a perdere, a ripiegare sulla sfera privata, mentre il nuovo che avanza miete successi.

Nello stesso tempo, il gioco si ripiega inevitabilmente su se stesso perché a sua volta il film di Baumbach è un concentrato di citazioni ammiccanti, di stereotipi ricuciti e rimasticati, che recupera Pollack e Allen, David Bowie e Patti Smith, irretendo lo spettatore in quella stessa maglia – nostalgica – che vorrebbe squarciare.

Sofia Bonicalzi
Sofia Bonicalzi
Sofia Bonicalzi è nata a Milano nel 1987. Laureatasi in filosofia nel 2009 è da sempre grande appassionata di cinema e di letteratura. Dal 2010, in seguito alla partecipazione a workshop e seminari, collabora con alcune testate on line.

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