Gli ultimi saranno ultimi è come uno specchio capace di riflettere tutte le emozioni possibili, racconta la storia di Luciana Colacci (Paola Cortellesi), una donna semplice che sogna una vita dignitosa insieme a suo marito Stefano (Alessandro Gasmann). All’apice del loro sogno d’amore, quando la pancia di Luciana comincia a crescere, il suo mondo inizia a perdere pezzi: si troverà senza lavoro e deciderà di reclamare giustizia e diritti di fronte alla persona sbagliata, proprio un ultimo come lei, Antonio Zanzotto (Fabrizio Bentivoglio).
Tra tematiche importanti quali il lavoro e il ruolo della donna in ambito lavorativo, concetti universali come dignità, reazione, limiti, solitudine, anaffettività e molto altro ancora, Massimiliano Bruno, regista del film, ha incontrato la stampa insieme al cast e alla produzione.
Massimiliano ci accompagni in questo ulteriore passo della tua storia e del tuo percorso nel cinema?
Massimiliano Bruno: Credo che ognuno di noi assuma diverse facce rispetto alle fasi della propria crescita, anche creativa, rispetto ovviamente alle persone che incontra e agli artisti con cui viene a contatto. Questa era un’esigenza in questo momento della mia vita, un film necessario da fare che ha tante valenze per me: personale perché racconta di una reazione, un sentimento che è ben presente in questo momento della mia vita; di collaborazione perché sancisce una cooperazione profondissima tra me e Paola Cortellesi, considerato che lavoriamo insieme dal 1997. Abbiamo condiviso un percorso cominciato nei teatri che a volte avevano tredici spettatori e odori terribili, fatto di piccole costruzioni, a volte realizzate insieme e altre volte separatamente. Amiamo ritrovarci ogni tanto, quindi è l’ennesimo atto d’amore artistico tra noi due. Ha una valenza importante anche perché credo che sancisca un cambiamento di rotta intelligente da parte della produzione IIF di Fulvio e Federica Lucisano, che hanno deciso di investire su un film diverso da tutto ciò che abbiamo fatto prima. Anche qui uso la parola “amore” perché credo che da anni loro dimostrino un amore incredibile nei miei confronti, anche se non capisco perché. Io nel cinema sono nato e cresciuto con loro e spero di continuare a crescere. E poi di nuovo l’incontro con Rai Cinema e 01 distribution che sono stati dei partner amorevoli. E quello con Alessandro Gasmann che è un amico con cui avevo già lavorato. E ancora l’incontro con una serie di attori che conosco da anni ma con cui non avevo mai avuto il piacere di lavorare, primo fra tutti Fabrizio Bentivoglio che è stato uno dei motivi della mia crescita umana e artistica proprio su questo film, perché lavorare con attori come lui riesce a renderti un artista migliore.
Paola fino a che punto può spingersi una persona per salvaguardare oppure riconquistare il proprio lavoro?
Paola Cortellesi: La domanda che già si era posta Massimiliano quando scrisse il racconto teatrale e che poi ci siamo posti in fase di sceneggiatura quando si è deciso di farne un film è proprio questa: qual è il limite per ognuno di noi? A volte nelle cronache abbiamo letto di persone che hanno compiuto gesti estremi e poi andando a vedere si è percepito che non si trattava certo di criminali conclamati ma di persone comuni. Ecco la domanda che ci siamo posti è: cosa può spingere una persona normale che vive una vita bella e semplice fatta di lavoro onesto, a trasformarsi in una persona potenzialmente molto pericolosa perché incontrollabile. Non lo sappiamo in realtà. Quello che accade a Luciana è che gradualmente, con una parabola assolutamente discendente, perde la dignità legata alla perdita del lavoro ma anche gli affetti. Perde il sostegno emotivo in un momento così difficile per una donna, un momento che dovrebbe essere benedetto ma diventa difficile nella sua esistenza e nel modo in cui è costretta a vivere la maternità, perdendo infine ogni appiglio con la realtà e arrivando a compiere quel gesto sconsiderato. Sicuramente la perdita degli affetti e del sostegno emotivo è la cosa che fa scattare quel senso di rivalsa che lei comunica al figlio nel pancione. La sua filosofia di vita che è sempre stata quella di farsi pecora, di rendersi invisibile il più possibile per vivere una vita senza infamia e senza lode, comincia improvvisamente a crollare. Il punto di non ritorno per lei credo sia proprio quello, la perdita degli affetti e la perdita di una forza che viene anche dall’ambiente che di solito ti sostiene.
Ricollegandomi a quello che ha detto Paola, volevo chiedere a Federica Lucisano: nella vostra società lavorano delle donne. Qual’è il vostro punto di vista nel momento in cui una donna che lavora da voi arriva alla maternità?
Federica Lucisano: Abbiamo un po’ di collaboratrici fascia 35/40 anni che vengono da noi stimolate in tal senso. Questa cosa viene da lontano; è una cosa che mi ha insegnato mio padre. Lavoro con mio padre da più di venti anni. Ne abbiamo avute tante di maternità, almeno una ventina. Qualche ragazza arrivava da me preoccupata, come se avesse fatto una marachella. Poi andava a bussare da mio padre, glielo diceva e lui l’abbracciava felice. Anche nei momenti di maggior difficoltà, dove magari c’erano tre collaboratrici incinte, siamo andati avanti alla grande grazie all’insegnamento di mio padre.
Questo connubio tra teatro e cinema è quindi possibile? C’è una differenza d’interpretazione tra la dimensione teatrale e quella cinematografica?
Massimiliano Bruno: Quando scrivo uno spettacolo per il teatro non penso mai che diventerà un film. Credo anche che ci siano ottimi film che sono stati girati in Italia partendo dal teatro. Io sono stato uno di quei fortunati ad aver visto al teatro Argot di Roma “La Stazione” di Sergio Rubini che poi è diventato un bellissimo film. Ho avuto anche la possibilità di scrivere un paio di film che provenivano dai miei spettacoli teatrali. Penso a “Tutti contro tutti” e a “Ti ricordi di me” di Rolando Ravello, il primo tratto dal monologo “Agostino” che avevamo fatto con Mannarino e Ravello al teatro Ambra Jovinelli e il secondo da “Ancora un attimo” che avevamo fatto proprio con la Cortellesi. Se c’è una storia che funziona può esserci una trasposizione cinematografica, fermo restando che si deve avere il coraggio anche di buttare via tutto quello che hai fatto a teatro oppure salvare poche cose. Nel caso della sceneggiatura de “Gli ultimi saranno ultimi”, conoscendo bene la materia, abbiamo compiuto salti e trasformazioni. Per cui le parole di un personaggio sono diventate di un altro. Un personaggio centrale nella rappresentazione teatrale che era la donna delle pulizie, nel film non è presente. Era la narratrice della storia in teatro e nel film non poteva esserci, ma il senso di quello che diceva è diventato il personaggio di Luciana. Nello spettacolo non c’era il passato, veniva solo evocato. Il film l’abbiamo fatto durare nove mesi tanto quanto la gravidanza di Luciana. Abbiamo accompagnato gli spettatori all’interno di una gravidanza lunga nove mesi con tutte le accezioni emotive che ci sono ovvero l’euforia, il divertimento, la commedia ma anche la tristezza, il dolore che sfocia in dramma. Credo che sia la caratteristica principale di questa trasposizione.
Alessandro Gasmann: Credo che il rapporto tra teatro e cinema debba continuare a esistere. In Italia ad esempio si pratica meno che in altri paesi. Non sempre gli adattamenti cinematografici sono buoni quanto i buoni risultati ottenuti a teatro. Bisogna avere coraggio e intelligenza. A teatro si ottengono risultati prevalentemente con i dialoghi e con la parola, mentre al cinema si utilizzano altre cose come le immagini, le espressioni del volto e quant’altro. Credo che questo film sia un ottimo esempio di connubio teatro/cinema. Chi ci ha lavorato, ha rinunciato a quello che di sicuro era stato costruito in teatro, per cercarlo in altro modo e ne è venuta fuori una sceneggiatura molto credibile. Proprio per questo ho accettato di fare questo film, perché vuole e riesce ad assomigliare alla vita. In passato mi è successo di fare film da cose che avevo fatto in teatro e quasi sempre la trasposizione cinematografica non era buona quanto quella dello spettacolo. In questo caso io non ho visto lo spettacolo di Paola, ma posso parlare del film e ne sono molto soddisfatto.
Fabrizio Bentivoglio: Se penso a “Italia – Germania 4-3” ma anche a “La scuola”, per me non è una novità che quello che nasce in un contesto teatrale poi venga trasposto al cinema così da ottenere un valore aggiunto. Parlo anche da attore che ha lavorato per la prima volta con Massimiliano. Mi ha aiutato molto esser parte di un gruppo di lavoro pre-esistente, già formato, quasi più simile a una compagnia teatrale che a un gruppo di lavoro cinematografico che si può anche formare in occasione del film e poi sciogliersi.
Paola Cortellesi: Rispetto al lavoro teatrale ha già detto molto Massimiliano. A volte bisogna avere il coraggio di buttare via le cose alle quali sei molto affezionato. La differenza sostanziale è che in teatro raccontavamo solo la nottataccia e i personaggi che la popolavano. Sono riuscita a interpretare tutti i personaggi perché li ho copiati da un altro spettacolo che si chiamava “Zero” in cui Massimiliano, un uomo evidentemente barbuto, interpretava addirittura una giovane ragazza toscana ed era credibilissimo grazie alla convenzione teatrale e alla fantasia che a teatro diventa possibile. Questo al cinema non accade. Al cinema abbiamo dovuto raccontare anche quello che accadeva prima nelle vite di tutti i personaggi. Per me è stato bello dedicarmi solo a Luciana nell’interpretazione perché in lei c’è anche molto del lavoro teatrale che era stato affidato alla narratrice.
Le problematiche legate al lavoro e alla disoccupazione sono tematiche ancora tristemente attuali, anche a distanza di anni dalla rappresentazione teatrale.
Paola Cortellesi: Nel 2005 volevamo raccontare una cosa che si cominciava a sentire nell’aria. Il problema dei lavoratori precari e delle donne lavoratrici con contratti a termine stava emergendo allora. Adesso è più che mai attuale ed è il motivo per cui si è deciso di farne un film. Perché non solo si voleva prendere un testo a cui eravamo legati e che ci aveva dato tante soddisfazioni. Volevamo parlare di qualcosa che riguardasse il presente. Questo è un tema molto attuale, se ne parla poco fatta eccezione per Papa Francesco che ha ricordato questa cosa. È un dato di fatto che le donne siano svantaggiate nel mondo del lavoro, più che mai se incinte, più che mai se lavoratrici con contratti a termine. Si sa, ma non se ne parla. Questa ci sembrava una buona occasione per parlarne.
Massimiliano tu hai detto che il film è il racconto di una reazione. Ci raccontate tutti la vostra reazione in questo momento della vita anche in rapporto al ruolo.
Massimiliano Bruno: Io ci sto molto dentro a questo film. Racconta moltissimo come mi sento, perché credo di attraversare un momento della vita in cui sto reagendo alle cose sia personali che artistiche. I bambini a due anni e mezzo hanno la “fase dei no”. L’avevo dimenticata questa fase, adesso sto da poco cominciando a dire dei no e non è un caso se ho voluto fortemente fare questo film. Sarebbe stato molto più facile fare un film leggero. In questo caso sono stato abbastanza testardo e poi l’unione fa la forza. Ci siamo presi per mano con tutta la nostra squadra di lavoro e abbiamo deciso di affrontare insieme una cosa difficile. Perché è un tema complicato quello trattato nel film che vedo intorno a me da tanti anni, non solo personalmente in relazione alla fatica sopportata per arrivare verso determinati obiettivi lavorativi, ma anche con tutto quello che ho visto intorno a me in questi anni attraverso i miei amici precari, altri che non ce la fanno, altri ancora che fanno i ricercatori all’università e hanno a malapena i soldi per pagarsi l’affitto e la cena. Quello che ci racconta questo film è la sopportazione materiale che riusciamo a sostenere, ma quando poi incontriamo un muro che ci respinge in modo anaffettivo, la solitudine può esaperarci e in alcuni casi può spingerci a commettere delle sciocchezze. Reagire mentalmente è importante. È ovvio però che con questo film non vogliamo dire che reagire in modo estremo sia una cosa giusta, perché è una cosa che non va fatta.
Paola Cortellesi: Io la “fase dei no” non l’ho mai vissuta credo nemmeno da bambina. Luciana è un personaggio che reagisce e lo fa in modo sbagliato. Ci siamo molto divertiti in scrittura a seminare qua e là:“gli avrei voluto dire”. Luciana lo dice spesso. Quando qualcuno dice qualcosa che non ti piace o ti tratta con superiorità fai buon viso a cattivo gioco e poi torni a casa col rimorso di quello che avresti voluto dire, ripensandoci. Luciana è una che ci ripensa, che rimugina, che trattiene e che poi però esplode. Se va cercata una catarsi nel personaggio è nel dosare le reazioni e farle uscire poco alla volta, al momento giusto, piuttosto che farle uscire tutte insieme nel momento sbagliato e commettere un atto folle.
Alessandro Gasmann: Io personalmente sono esattamente all’opposto di Paola, nel senso che sono uno che ha sempre esercitato il “no” in modo eccessivo. Uno dei miei problemi caratteriali è proprio quello di non sopportare le imposizioni, non sopportare le ingiustizie quindi sono uno che cerca il confronto diretto. Lo faccio quotidianamente e come sapete anche in rete, e lo faccio da normale cittadino, ma non mi faccio dire da nessuno quello che devo pensare e dire. Dico sempre quello che penso anche se la cosa può non essere condivisibile da molti. Credo che questo film sia utile proprio in questo momento dove il paese Paese ha fatto per troppo tempo quello che fa il mio personaggio nel film: ha finto di essere qualcun altro senza rendersi conto che la situazione era drammaticamente cambiata.
Fabrizio Bentivoglio: Io di “no” ne ho sempre detti tantissimi e sono contento di non aver detto no a questo film invece.
Ilaria Spada: La reazione mi fa pensare in questo periodo della mia vita alla possibilità di uscir fuori da un mood ripetitivo. Nella vita si tende a ripetersi, a ripetere gli errori, le scelte sbagliate, andare in una direzione solo perché si pensa che sia l’unica e perché non si ha il coraggio anche di andare da un’altra parte, per esempio in una zona apparentemente scomoda. Invece il mio personaggio è inconsapevole, fa le cose senza pensarci troppo. Paradossalmente non si rende conto dei danni che si auto infligge, ma nella parte finale sembra rendersi conto di aver fatto un danno a Luciana. Mi piace immaginare questo personaggio capace di fermarsi a riflettere anche su se stessa dopo aver compiuto questo errore, perché bisogna anche pensare che i propri errori possono avere un effetto domino sugli altri; probabilmente in futuro agirà diversamente facendosi meno del male. Questo è un personaggio che apparentemente risulta superficiale ma che in realtà da qualche parte deve aver avuto una sua sofferenza se ha deciso di reagire così alla vita. È una degli ultimi anche lei.
Il film ha un taglio commovente e drammatico, ma poi ha una chiusura più rassicurante. Avete discusso su questo finale?
Paola Cortellesi: Credo che ci voglia più coraggio di questi tempi nel dare una speranza ed è quello che avevamo intenzione di fare.
Massimiliano Bruno: Mi hai tolto le parole di bocca, nel senso che questo era il messaggio che volevamo dare. Esattamente quello di cercare di resistere nonostante tutto. Quel bambino alla fine nasce e credo che nel film il piccolo Mario rappresenti un po’ la parte nuova del nostro Paese, il futuro. E vogliamo che sia libero e che corra con una maglietta rossa su un prato verde.
Fulvio Lucisano: Io ogni volta che vedo il film mi commuovo. Per cui il finale, di cui abbiamo discusso a lungo, è un finale strepitoso.
Paola, tu dicevi giustamente che le donne sono svantaggiate nel mondo del lavoro. Questo è vero anche nel mondo del cinema come peraltro hanno denunciato giustamente molte attrici americane a cominciare da Jennifer Lawrence?
Paola Cortellesi: Sì le donne sono sempre svantaggiate. Lo sono nel mondo del lavoro, nella vita in generale, nel mondo occidentale tutto. Ne parlano le star femminili di Hollywood che hanno guadagni stratosferici, ma sempre minori rispetto alle star maschili. Secondo me si stanno facendo dei passi indietro riguardo alle donne, non è il caso di questo film per fortuna, per questo ringrazio sempre Massimiliano, nei secoli dei secoli, e questa produzione, perché hanno avuto il coraggio di produrre una storia del genere.
Vorrei collegarmi a qualcosa di più prettamente cinematografico. Potete dirci qualcosa in merito a questo uso del rallenty e anche all’uso enfatico della musica scelta per il finale.
Massimiliano Bruno: Parli con uno che viene dalla commedia. Per me la commedia è crescita, perché vivo in Italia. “Commedia all’italiana” è un termine che si usa in tutto il mondo e non c’è la commedia alla tedesca o la commedia alla polacca. La commedia all’italiana ha un filo ben visibile che lega la commedia al dramma. E io seguo da sempre questo filo. Alle volte puoi scrivere personaggi sopra le righe, come ho fatto nei film precedenti, e spingere più il pedale della comicità e in questo caso diventa più commedia italiana che all’italiana. Questa volta ho invece voluto seguire la verità. E la verità è che la qualità di quello che proponi non dipende dal dramma o dalla comicità, dipende dal messaggio che vuoi veicolare. Questa è una battaglia che si fa da anni e ha radici profonde in un pensiero di fondo assolutamente pessimista, freudiano, legato ad una certa corrente che si immagina come segno di qualità tutto quello che è eccessivamente drammatico, mentre il contrario non sarebbe qualitativamente accettabile. Siccome me ne sono sempre infischiato dei giudizi, ma ho cercato sempre di fare qualcosa che assomigliasse a me, devo dire che anche questo film mi somiglia perché vuole raccontare qualcosa in maniera struggente, perché Luciana, Antonio e Stefano passano all’inferno. Nel film volevo raccontare che quando si è forgiati dalle fiamme dell’inferno si può reagire in maniera positiva. Ed è questa la grande battaglia che abbiamo deciso di affrontare in fase di sceneggiatura e quando ho montato il film con Luciana Pandolfelli, che è una grande montatrice. Il rallenty a cui ti riferisci serve a enfatizzare questo passaggio agli inferi, ovvero quando qualcosa dentro di te muore, ed è ovvio che dentro Luciana qualcosa muoia. Dal mio punto di vista a morire è la vecchia Luciana, quella che non reagiva, quella che era pecora. Questa è la prima parte della risposta, la seconda parte della risposta è: mi piaceva così.
Questo film è molto vicino a Bergoglio e completamente lontano da Renzi?
Massimiliano Bruno: Nessuna delle due cose. Altrimenti finiva dicendo che gli ultimi saranno i primi
Paola Cortellesi: sottoscrivo quello che dice Massimiliano. Non segue nessuna corrente indotta. È la storia di un singolo, non è la storia di un Paese. È la storia di una singola donna che vive in questo Paese e quindi in qualche modo si trova a raccontarlo. È un film che ha il coraggio delle emozioni.
Alessandro Gasmann: sono d’accordo con Massimiliano e Paola sul fatto che non ci sia un messaggio politico nel film, c’è un messaggio sociale che è altra cosa. Credo che sia un messaggio sicuramente coraggioso e anche necessario in questo momento nel nostro Paese, quindi ne sono anche coinvolto sotto questo punto di vista. Poi è chiaro che ognuno ha le sue idee politiche ma in questo caso sono aspetti che non fanno parte del mestiere dell’attore.
Una definizione breve del concetto di dignità
Massimiliano Bruno: dignità è quando uomini e donne possono avere le stesse opportunità. Dignità è ricordarci che l’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro, che abbiamo diritto ad avere un lavoro dignitoso e che le persone hanno diritto ad avere il loro “stipendio basso”, che è una battuta di cui siamo orgogliosi, grazie al quale si può vivere dignitosamente, sicuramente non con la Porsche oppure andando tutti i week end a Montecarlo, ma cercando di vivere dignitosamente per quello che siamo. Luciana ha un momento di difficoltà quando gli esseri umani intorno a lei sono deludenti, non quando perde il lavoro, perché reagisce alla perdita del lavoro provandoci nel settore catering proprio quando è incinta. Reagisce male quando suo marito abbandona il loro rapporto, quando un’amica la tradisce, quando si sente sola. Questo è un messaggio fondamentale che deve passare da questo film. Non si va fuori di testa perché si perde il lavoro, si va fuori di testa quando non si percepisce più il contatto umano e l’anaffettività ci uccide