Quando il Tenente Colonnello Johns (Bruce Greenwood) illustra le funzioni della nuova tecnologia che consente l’utilizzo di droni per operazioni di guerra controllate a distanza, segna da subito una marcatura sulle immagini che vedremo di li a poco; “non è un fottuto videogame“, non è un agglomerato di pixel a frantumarsi, ma obiettivi umani. Andrew Niccol pone sin da subito un filtro morale “ovvio” e scoperto sulle operazioni di scanning del territorio mediorientale che il maggiore Thomas Egan (Ethan Hawke) effettuerà con il suo staff, alla ricerca di obiettivi sensibili da bombardare.
Ex pilota di F-16 in Afghanistan e in Iraq, da quando viene assegnato al controllo virtuale dei droni, può stare sempre vicino alla famiglia, ma questo non lo ha salvato da un progressivo scivolamento nella depressione. La sconnessione emotiva tra immagine ed evento che sperimentiamo ogni giorno nella fruizione im-mediata di immagini trasmesse, condivise, rilanciate, viralizzate, come se fossero un prolungamento delle nostre facoltà neuronali, nella prassi quotidiana di Thomas Egan viene amplificata dal depotenziamento emotivo rispetto agli effetti, più che un’assuefazione all’orrore, è un’assenza di intensità che accompagna l’atto di uccidere.
“Mi sento un codardo“, dirà più avanti alla moglie raccontandole le caratteristiche del suo lavoro; niente a che vedere con la paura, l’adrenalina e il rischio di non tornare indietro provato durante gli anni in cui era in volo a bordo degli F-16. Una prospettiva che può inorridire, ma che rappresenta l’aspetto più interessante e potenzialmente incompromissorio del film di Andrew Niccol.
Thomas Egan non prova più niente perchè la sua posizione è agli antipodi rispetto al survivalismo feroce di Vincent Gallo nel film del “Boxeur” Jerzy Skolimowski; dalla sua prospettiva non può mettersi in gioco a mani nude, né sperimentare i rischi della velocità, mancanza che Niccol sottolinea più volte, con le numerose sequenze in cui Egan sfreccia nel deserto del Nevada, tracanna Whisky, fa rullare due giri di slot-machine; una caratterizzazione quasi “pulp” del personaggio accentuata da una colonna sonora che proprio in quei momenti frulla un po’ di rock coevo, dai The National ai Black Mountain e che su un piano diverso mette in contrasto il cinema dei conflitti virtuali con quello muscolare di Tony Scott, l’immagine virtuale e gli F-16 di Top Gun, come schegge di un passato che non potrà più tornare: “mica penserai davvero che ti ci rimetteranno a bordo di quell’areo?”
La guerra dei “drones” è quasi senza audio, un’immagine scrutata dall’alto, una consolle di controllo che consente di pedinare gli obiettivi e un’altra che arma un laser e procede al fuoco una volta centrato l’obiettivo.
Good Kill è ambientato a Las Vegas, da quel punto di vista che si mangia la strip principale facendo emergere tutto il deserto intorno invece delle immagini più conosciute della città, una possibilità di astrazione che Niccol coglie con i suoi mezzi (non è Amir Naderi) e che elabora con quel gusto science-fiction per volumi, spazi asettici e una percezione dello spazio vicina alla metafisica negativa di alcuni suoi film più noti; sono piccoli frammenti famigliari che prolungano la soggettiva di Thomas Egan nella sua progressiva perdita di emotività. Ma al regista di Paraparaumu questo non basta per concentrarsi sull’umanissimo sprofondare di Egan nel vuoto, né per giocare (seriamente) con il passaggio da un cinema emozionale, adrenalinico e patriottardo ad uno che si interroghi sul ruolo dell’immagine virtuale e connettiva; mescola un po’ le carte e aggiunge alcune note a margine che non gli consentono di fare un cinema che traumaticamente si faccia carico del passaggio da organico a inorganico, da carne a pixel come nei film di Kathrin Bigelow, Paul Greengrass, Paul Haggis, perché in modo simile al suo “Lord of war” deve spiegare tutto, manifestare sdegno, filtrare l’immagine della guerra con quella logica binaria che innerva tutta la letteratura distopica più evidente.
Nella ricerca del “dolore” da parte di Thomas Egan, questa sua assoluta necessità di bruciarsi in un corpo a corpo vitale, sembra collidere con quella consapevolezza etica che si fa strada quando la CIA comincia ad allargare lo spettro e l’area degli obiettivi per ordinare al suo staff interventi meno specifici e più massivi; una discesa infernale verso il vuoto che sembra sovrapporsi ad una presa di coscienza troppo evidente e rassicurante, come la vendetta “privata” di cui lo stesso Egan si farà carico utilizzando il suo personale punto di vista sulla storia di quelle immagini spiate.
In queste sovrapposizioni “morali”, si avverte uno sfaldamento artificiale, un tentativo di rendere più tollerabile questa mutazione traumatica dei processi cognitivi che generano nuove sinapsi tra corpo e interfaccia, ma sopratutto un allontanamento da quell’esigenza feroce e primaria, che attraversa parte del film e che ci è sembrata la forza più viva dello stesso, al di là della solita rilettura delle responsabilità nei conflitti coevi, incluso quello sulla striscia di Gaza, al quale Niccol allude in tutti gli scopertissimi dialoghi che parlano di una diversa dotazione tecnologica per difendere i propri cittadini.
Rimane il sogno di Thomas Egan, a bordo del suo F-16, quasi potesse guidarlo con il pensiero, libero da qualsiasi vincolo, come Clint Eastwood nel suo Firefox.