«Prevedi qualche problema a lavorare per un nero?», chiede Don. «No», risponde Tony con l’astuzia propria di un azzeccagarbugli, «l’altro giorno, io e mia moglie avevamo un paio di ragazzi neri a casa per un drink».
Mahershala Ali e Viggo Mortensen al primo scontro. Uno, pignolo, altero, immacolato nelle sue vesti candide e l’altro addestrato a vivere nei vicoli del Bronx, iracondo, dai pugni veloci e dall’appetito sconcertante.
Inizia così la storia che racconta Peter Farrelly, un pianista nero dal grande talento che assume un buttafuori del famoso night club Copacabana per un lungo viaggio nel più profondo sud degli Stati Uniti. Tony “Lip” Vallelonga ha bisogno di soldi, il Dr Don Shirley di protezione. È il 1962 e per intraprendere un tour simile serve un guida, il Green Book, che segnala i posti migliori in cui dormire e mangiare per un nero e le aree in cui è necessario procedere con cautela. La Cadillac diventa un palcoscenico, lo spazio in cui i due protagonisti si consumano dallo sforzo di comprendersi.
Due estranei che imparano a trascurare i confini della razza, l’orientamento sessuale e la classe sociale perché le circostanze li costringono a fare affidamento l’uno sull’altro.
Mahershala Ali siede distaccato, avvolto nella sua coperta di cachemire, nella parte posteriore della macchina, stanco delle vuote chiacchiere di Tony, delle sigarette sempre in bocca e dal continuo movimento delle sue mascelle. Il colto pianista tiene i suoi demoni imbottigliati e sigillati come la vodka che ogni sera si fa recapitare per berla solo nella sua stanza d’albergo. Nasconde le sue ferite a differenza del suo interlocutore, la cui anima è completamente trasparente. Mortensen è sbalorditivo, coinvolgente più di quanto la sceneggiatura gli permetta, evita i problemi, a volte li causa.
Un uomo istintivo e irascibile che sa essere discreto e comprensivo quando comincia a catturare la complessità di Don che si destreggia con il rimpianto una mattina dopo l’altra e l’orgoglio testardo che l’ha portato lì, in quelle città in cui almeno una parta di sé è ferocemente detestata.
Questo film recita tutto il repertorio degli stereotipi razzisti che conosciamo, il bar con i tizi idioti che menano Don, i poliziotti al di sopra della legge, il commesso sbruffone e il nobiluomo che paga per l’esecuzione del genio nero ma gli vieta di andare nel bagno di casa. Ma non importa perché il piacere deriva dalla semplicità con cui questi due uomini cominciano a capirsi, proprio in quella Cadillac cangiante mentre attraversano paesaggi che sembrano colorati da Edward Hopper.
Con “Green Book” si respira il continuo affronto, la segregazione, l’umiliazione, ma il razzismo fa da cornice perché al centro restano i due protagonisti, il legame che creano a fatica, il superamento dei pregiudizi. È una battaglia intima quella che è sullo schermo, un sistema che funziona a tu per tu. La collettività resta fuori, marginale, sullo sfondo. La realtà non cambia, solo l’universo di Don e Tony si disgrega, muta e acquista una nuova prospettiva.
Green Book è prevedibile, ogni cosa va come l’avevi immaginata, potrebbe essere il più grande tributo fatto al cinema di Frank Capra, che sapeva bene dare corpo alla rappresentazione popolare dei rapporti sociali. La lotta è impari vero, ma il finale è, invariabilmente, a favore degli umili e dei giusti.
Un film imperfetto ma infallibile.