mercoledì, Novembre 6, 2024

Grifi e la filmografia impossibile # 3

(..continua # 3) Alberto Grifi è arrestato e condannato a due anni di reclusione nel carcere di Regina Coeli, per detenzione di pochi grammi di hascisc che non verranno mai trovati

L’esperienza e la durezza del carcere lo cambiano profondamente, è lì che le parole di Zavattini cominciano ad assumere un significato sempre più preciso nella sua mente: “Da quando sono stato rinchiuso per due anni in galera, mi interesso sempre meno di linguaggio cinematografico e sempre più della mia vita.” ((Note su undici ore di video, registrazioni realizzate con Massimo Sarchielli, dal titolo Anna. In Sirio Luginbuhl e Raffaele Perrotta, Lo schermo negato, Cronache di un cinema italiano non ufficiale, Shakespeare and Company, Milano, 1976.)) E ancora : “In carcere ho scoperto che anche il più miserabile e mostruoso degli esseri umani è un universo di meraviglie e di insegnamenti.” ((Quando il tempo non è denaro, Intervista a Alberto Grifi, di Francesca Vatteroni e Serafino Murri, Close-up, Storie di visione, n. 5, Nov-Gen 1999.))
Le parole lette su queste immagini, aggiunte da alcuni amici di Alberto durante la proiezione dei lavori, quando ancora lui si trovava in carcere, e poi rimaste nella colonna sonora, risultano essere una sorta di commento stranamente appropriato: contro l’artificialità del dolore ricreato con difficoltà dalla Vitti si sente la cruda descrizione di un dolore fisico e psicologico, avvenuto nella realtà, che vanifica e svuota di senso i meccanismi della finzione cinematografica canonica (Antonioni è pure un regista di film d’autore ma opera sempre all’interno degli stilemi del cinema tradizionale e borghese), mentre la visita ai campi di concentramento nazisti è attualizzata dalla descrizione di torture e sofferenze contemporanee, creando un parallelo plausbile e scandaloso (in quanto ricreato dagli organi di Stato) tra le due condizioni storiche.
Grifi in carcere inzia a rifletter su cosa voglia veramente dire fare arte rivoluzionaria, e capisce che quello che aveva fatto fino ad allora non era che, in qualche modo, solo il gioco di chi detiene il potere. La sperimentazione sul linguaggio è fine a sè stessa se non porta a dei cambiamenti concreti nella realtà che si intende criticare, come scriveva il filosofo Mario Perniola, che da allora Grifi parafraserà spesso: è “infatti quando i processi rivoluzionari falliscono nella vita che la creatività ripiega sull’attività artistica. (…) Al contrario, in una società in rivoluzione è la realtà stessa che diviene il luogo della creazione permanente. A condizione che la nuova vita non cada mai al di sotto dell’intensità dei momenti più alti della vecchia arte.”
Le sue nuove conspevolezze saranno espresse in uno dei primi lavori che girerà uscito di galera, protagonista il suo amico pittore e scrittore surrealista Giordano Falzoni, e cioè Il grande freddo, ovvero riuscirà Giordano Falzoni a risvegliare la bella addormentata? (1971), che, sfruttando l’immaginario visivo dei quadri di Falzoni e le sue performance artistiche costruisce un’allegoria della figura dell’artista rivoluzionario, in cui Grifi interviene con la sua voce fuoricampo facendo l’autocritica : “La creatività rivoluzionaria non è quella che fa cantare l’uccello in gabbia, ma è quella per la quale l’uccello, la gabbia, la rompe.” E’ con Anna, realizzata dal 1972-1975, che la presa di coscienza si farà netta e irreversibile. Il film nasce dall’incontro di Massimo Sarchielli, amico attore di Grifi, con questa ragazza sedicenne, incinta e piena di anfetamine che, seduta ad un tavolino di Piazza Navona chiede un posto dove dormire. Sarchielli la ospita e da questa difficile convivenza nasce l’idea di farne un film: si prendono appunti, Grifi viene chiamato per girarlo, dopo aver racimolato un po’ di pellicola (molta della quale fu donata da Roberto Rossellini).
Presto però ci si scontra con la difficoltà insita in un lavoro che si propone di parlare di una realtà concreta non potendo esimersi dal mistificarla, dal momento che da vita vera diventa recitazione di questa. Grifi racconta dell’episodio in cui Anna, mostratogli il terrazzo di casa di Massimo, dice rivolta alla bella giornata “che bel sole!” e subito dopo, guardando giù dal quinto piano: “che bel posto per buttrsi di sotto”. L’intento è di rigirare la scena, ma quando Anna è costretta a ripetere la stessa posizione, gli stessi gesti, le stesse parole è lei stessa che si rifiuta. Come dice Grifi: “Ci ha dato una lezione di coerenza verso sé stessa che non posso dimenticare: il rifiuto di recitare ciò che in lei è autentico.” ((Alberto Grifi, Undici ore di videoregistrazioni.))
La stessa cosa succede quando le fanno recitare una scena in cui Massimo la costringe a farsi la doccia, cercando di ripetere quello che era successo un mese prima, all’arrivo di Anna a casa sua: ad un certo punto saltano fuori pidocchi veri, che nessuno sospettava che Anna avesse, e l’intera troupe inizia a grattarsi, ed insieme ad odiarsi: “Ci siamo odiati. Nessuno ha più voglia di recitare. Si vede molto bene sul nastro. Non potevamo più amministrare i disagi di Anna dall’alto, perché i disagi di Anna erano passati direttamente sulle nostre teste; i disagi di Anna, una piccola parte, erano adesso anche i nostri. Con una manciata di pidocchi che non sapeva nemmeno di avere, Anna ci ha trascinato giù dal piedistallo della regia. Questi pidocchi sottoproletari, questi pidocchi drop-out imprevisti ci hanno fatto smettere di amministrare pidocchiosamente il vissuto di Anna.” ((Ibidem))
Grifi si rende conto che ad Anna un semidocumentario su di lei non serve a niente, che quello che chiede non sono altre persone che la costringano a fare cose che non ha voglia di fare, ma semplicemente vivere, essere amata. E chi risponde a questa domanda è l’elettricista Vincenzo, che ad un certo punto entra in campo, abbandona il suo ruolo, e dichiara, raccontando la sua esperienza di lotta come operaio sfruttato alla Pirelli, il suo amore per Anna. Ancora una volta la vita disturba la tenuta del film, ne dilata i confini, dimostrando che ciò che conta non è il film stesso, con la sua struttura data e fissa, mascherante ogni sbavatura, ma quello che c’è prima, dopo e durante. Anna che, rifiutandosi di recitare la sua vita, semplicemente vive, l’elettricista che, entrando in campo, rifiuta la regia col suo atto d’amore. (#3 continua..)

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