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Happy Family – di Gabriele Salvatores (Italia, 2010)

Salvatores è il terzo regista italiano che si affaccia sul nuovo decennio con il ritratto di una famiglia numerosa quanto suo malgrado anticonvenzionale. Virzì e Ozpetek, ognuno inseguendo le proprie chimere (chi un’ossessione per le vette della commedia corale di Scola, chi la dimensione meno insincera possibile di un “cinema omosessuale italiano”), hanno probabilmente portato a casa i loro migliori risultati in carriera, trincerandosi però sotto l’ombra fin troppo affollata della tradizione nazionale. Al regista napoletano, ormai trapiantato a Milano con la sua Coloradofilm, bisogna riconoscere di aver dimostrato maggiore coraggio rispetto ai suoi colleghi, ma non si può sorvolare sul fatto che Happy Family risulta in ultima istanza un film goffo e fasullo. Dev’essere andata più o meno così: Salvatores si trova per le mani l’interessante sceneggiatura di Genovesi, finalista all’ultimo premio Solinas, imperniata su vetuste premesse metanarrative pirandelliane (d’altra parte in origine era una pièce teatrale), ma ambientata in un universo di stravaganti altoborghesi complessati, perlomeno insoliti per il cinema italiano. Ecco quindi l’occasione per confezionare una commedia che richiami il sapore ricercato del cinema di Wes Anderson, che tanti proseliti ha fatto negli ultimi anni. Ed ecco anche il tranello in cui l’intero film inciampa, accartocciandosi su se stesso. Il regista si studia a memoria I Tenenbaum, e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, di essere un capace artigiano della messa in scena, applicandosi al meglio nei giochi cromatici e nella disposizione geometrica dei dettagli scenografici. Calca però eccessivamente la mano, trasformando l’insistito omaggio all’originale in un espediente per tappare i buchi della propria immaginazione. L’attenzione per la carta da parati diventa feticismo, la Bilello, bella artistoide insicura, si rade e fuma in vasca come Margot Tenenbaum, il caricaturale Biancuzzi indossa gli occhiali di Max Fischer e la divisa tennistica di Richie Tenenbaum, Bentivoglio sfoggia le stesse vestaglie di Gene Hackman. Se non bastasse spuntano anche un cameriere indiano e la colonna sonora di Simon and Garfunkel, spacciati in sceneggiatura (con una maldestra esibizione di coda di paglia) per una dimenticata perla vintage rispolverata dagli scaffali di vinile. Invece di innestare idee originali su una struttura classica costellata di allusioni, come secondo il gusto dei pastiche contemporanei più riusciti, qui si applica uno sfrenato e ossessivo copia-incolla di idee altrui su uno scheletro potenzialmente originale. E nonostante questo, il dribbling degli stereotipi italiani non riesce, si ricade nella nevrosi della Buy, nella ridda di doppi sensi, nella faciloneria della canna come collante sociale. Salvatores si rivela molto più a suo agio nel gestire le tempistiche della grana grossa, le mimiche sopra le righe di De Luigi, la vena smargiassa di Abatantuono, le gag sfacciate sui servizietti zozzi, parecchio più riuscite, ahinoi, dei tentativi di ricalcare l’humour secco e impassibile di Anderson&co. D’altra parte, si era già avventurato in simili innesti acrobatici (il cyberpunk di Nirvana e il dramma frantumato in unità di luogo à la Inarritu di Insomnia), dando prova di ottime capacità emulatorie ma di una sconcertante pochezza nel conferire un senso compiuto e personale all’operazione. Se pensiamo al sorriso sornione con cui Sorrentino guarda i propri antieroi o all’estetica dei colorati pruriti partenopei di Corsicato, possiamo dire che la lezione di certo cinema internazionale ha già fatto breccia da queste parti. Per quanto riguarda Salvatores, poviamo a consolarci con rari sprazzi di anima sfoggiati nel ritratto della “sua” Milano altezzosa e cosmopolita, augurandoci che ricominci da lì, dalle ispirazioni estetiche sincere e sentite, evitando di contaminarle con trapianti a rischio di rigetto.

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