domenica, Dicembre 22, 2024

Have a Nice Day di Liu Jian – Berlinale 67, Concorso: la recensione

A sette anni di distanza da Piercing 1, Liu Jian torna con un film d’animazione ambientato come il primo in una Cina lurida e senza speranza. 75 minuti di duro realismo, accentuato dal tratto angoloso e quasi ligneo, molto distante da quello che conosciamo dell’animazione asiatica. Ma é sin dalla citazione Tolstoyana iniziale che il film del regista cinese mostra un altro aspetto separato dalla superficie animata. Il rischio infatti é quello di contemplare gli aspetti tecnici e realizzativi, sicuramente di rilievo, senza rendersi conto che la loro funzione in questo caso é un abbellimento superficiale per un dispositivo narrativo discutibile. L’approccio in questo senso é molto vicino ai film meno riusciti di Ralph Bakshi. Non importa la presenza o l’assenza del rotoscope, in questo senso Liu Jian sceglie una strada molto piú espressionista ed artigianale, quello che conta é l’impiego massivo di citazioni, frammenti, derive narrative, tutte prese in prestito dal cinema noir americano, da Il Padrino, in forma esplicita, fino al Raimi di Soldi Sporchi, passando per il saccheggio del cinema dei Cohen con modalitá davvero imbarazzanti.

Xiao Zhang lavora come autista, ma passa presto dalla parte del crimine per sottrarre un milione di yuan allo scopo di pagarsi un viaggio in Korea insieme alla fidanzata, vittima di un intervento di chirurgia estetica andato male. Ma non é solo su Xiao che il film si concentra, perché il regista cinese osserva numerosi personaggi che in modo diretto o indiretto sono connessi alla borsa piena di soldi. Tra questi c’é un gangster, e anche un paio di occhiali a raggi X.

Come si diceva, l’aspetto piú interessante del film é nel rapporto tra disegno e sfondo, Liu Jiun raggiunge un risultato realistico attraverso un procedimento sottrattivo e allontanandosi dalla verosimiglianza estrema di certa animazione occidentale. Ad esaltare la luminositá stilizzata dei disegni in primo piano, l’oscuritá degli sfondi e un sound design perturbante che davvero rende l’idea di un mondo completamente fuori dalle regole, minaccioso, dopato.
Su un piano diverso questo consente al regista cinese di lavorare sui simboli, per esempio l’intermission musicale, per accentuare il contrasto di cui si diceva o l’effige di mao associata alla deriva capitalista del paese, tutti aspetti che rimangono al livello di sollecitazioni, immerse come sono nella sarabando di imprestiti cinefili, citazioni, momenti di cinema giá visti altrove. Un peccato, o forse una vera e propria pecca, quella di confezionare un film “arthouse”, per prendere in prestito un’espressione della critica anglofona, da collocare al giusto posto e per il giusto pubblico. In una frase, troppo bello e fasullo.

Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini è curatrice della sezione corti per il Lucca Film Festival. Scrive di Cinema e Musica

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