Ispirato al videogioco della danese IO Interactive poi assorbita dalla Square Enix, Hitman giunge al secondo capitolo dopo il film diretto da Xavier Gens nel 2007. Alla regia l’esordiente polacco naturalizzato berlinese Aleksander Bach su sceneggiatura del solito Skip Woods, autore tra le altre cose del capitolo Die Hard diretto da John Moore e di Codice: Swordfish. Gli ingredienti degli ultimi dieci anni di cinema action e forse anche di più ci sono tutti mentre allo scenario dell’Europa orientale si sostituisce quello berlinese osservato come un ponte tra presente e futuro a partire dalla prospettiva dell’architettura modernista, dei volumi brutalisti e del dispiegamento di metallo e vetro nelle numerose sequenze girate a Potsdam e sopratutto a Singapore, anche all’interno della struttura reticolare dell’Institute of Technical Education.
Da questo punto di vista viene in mente l’esperimento di Karin Kusama fatto per Aeon Flux girato quasi interamente in Germania tra Berlino e Potsdam, dove il decor iper realista fantascientifico veniva sostituito e quasi completamente assimilato alle strutture architettoniche permanenti di scuola razionalista, moderna e post-moderna incluso il Baumschulenweg Crematorium progettato da Alex Schultes e Charlotte Frank. Ma quel piccolo miracolo di sintesi visiva viene imitato in modo del tutto convenzionale dal film di Bach che abbozza qualche angolatura espressionista cercando di comporre l’inquadratura a partire dai volumi e dalle linee disegnate dalla presenza delle sovrastrutture, senza la capacità di sfruttarle interamente per offrire slancio prospettico alle coreografie action, girate come in una scadente produzione televisiva.
Si ha la sensazione che anche la soggettiva videoludica venga riproposta pedissequamente senza che quel punto di vista diventi morfologicamente in dialogo con lo sfondo, inerzia confermata dai tagli che Bach elabora, quasi tutti senza dinamismo e con una separazione netta tra spazio e corpo, come se il dettaglio e l’improvviso avvicinamento allo scontro lo salvasse dal rischio di mantenere una logica credibile in termini strettamente funzionali e consequenziali. Il risultato è quindi quello di un improvviso rallentamento della tensione mentre il fatto che le sequenze migliori risultino in definitiva quelle d’insieme dimostra, oltre alla forza potenziale delle location, una totale incapacità di gestire i piani della visione in termini di ritmo e montaggio. In un film dove la sinossi legittimamente non conta niente, quella di realizzare un thriller urbanissimo tra vetro e metallo lasciando il compito allo spazio architettonico di indicare la via dello sguardo si rivela occasione del tutto mancata.