Siamo nel 1892, all’apice della rivoluzione industriale ove l’originario predominio degli indigeni americani è ormai una sconfitta inesorabile e definitiva. In questo contesto, a seguito di guerre sanguinarie perpetrate senza sosta, le rivolte di alcune comunità combattive continuano a farsi posto sul territorio: tra le vittime anche una giovane donna che vede la propria famiglia brutalmente sterminata dalla tribù Comanche. A prendersi cura di lei arriva in soccorso il Capitano di fanteria Joseph Blocker, incaricato suo malgrado di scortare dal Nuovo Messico al Montana il capo di guerra dei Cheyenne del Nord, Falco Giallo, pluri assassino ormai gravemente malato a cui è stato accordato il ritorno a casa.
La guerra vissuta in prima persona, le tragiche morti dei suoi compagni, hanno distrutto l’animo di Blocker colmo di odio verso i nativi americani, un rancore segnato da anni di sangue e violenza indicibili. L’incontro con la giovane vedova e il buon cuore di lei unito ad una lotta comune lo porteranno a vivere un duplice viaggio in cui la destinazione del principio sarà opportunità di nuove comprensioni e una, probabile, rinnovata vita.
Film d’apertura della dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, il regista e sceneggiatore statunitense Scott Cooper con il suo quarto lungometraggio (dopo l’esordio nel 2009 con Crazy Heart e i successivi Il fuoco della vendetta e Black Mass – L’ultimo gangster) affronta le fasi finali di quel tormentato periodo storico che ha segnato la nascita di una nuova America e il complicato rapporto con i nativi del luogo. Un’impresa tortuosa approntata ad una modalità da western classico dai tratti crepuscolari ed enigmatici e saldamente ancorata ai volti di due ottimi protagonisti, Christian Bale e Rosamund Pike. Interpreti che reggono le fila di Hostiles con performance d’eccezione, evocando le significative ferite emotive in commoventi sguardi che si profilano come radice stessa della pellicola e sui quali la stessa si struttura e amplia.
Un’Odissea di tormenti profondi attraverso le estese e sconfinate terre disseminate di odio e violenza tra pianure e montagne, canyon e foreste, in un’ardua impresa scenografica che dipinge la pellicola di vasti splendori naturalistici contaminati dalla mano feroce dell’uomo. In questo scenario prende forma l’analisi di Cooper che con particolare attenzione porta in superficie i drammi interiori che hanno devastato gli uomini protagonisti della guerra, dai volti segnati e l’esanime tempra, alcuni ormai tragicamente sconfitti dall’orrore vissuto.
Un quadro che perde di forza nell’approssimarsi alle difficoltà di origine etnica e al superamento delle stesse, approntate ad una retorica esistenzialista che sembra voler affacciarsi con esile garbo alle vicende contemporanee americane, come riferimento alle discutibili politiche marcate Donald Trump, ma che nell’effettivo si dissolvono in un obiettivo mancato e relegato ad una formale convenzionalità narrativa dai tratti insipidi e grossolani, perdendo di un significativo potenziale.
Cooper si avvale di un cast ben congeniale e studiato, quasi impeccabile, per un progetto dalle notevoli lacune che riesce comunque a snodare un certo interesse, pur senza elargire un lavoro degno di essere menzionato in futuro.