La giovinezza è non possedere il proprio corpo né il mondo.
Cesare Pavese
L’adolescenza ci coglie all’improvviso. Difficile fermare il momento in cui si frange la porta che apre l’individuo a nuove, insospettate possibilità. Non si è più bambini, non si è ancora adulti: è la sospensione di ogni punto di riferimento a rendere possibile l’attraversamento tra i due mondi ed è in questa precisa zona di frontiera che Fabio Bobbio, all’esordio alla regia dopo una lunga esperienza come montatore, ha scelto di collocare i protagonisti de I Cormorani.
Di loro non sappiamo niente, al di fuori della loro giovinezza. Nessun elemento che possa affinare il contesto e permetterci di costruire intorno alle loro azioni una previsione di senso, nessun indizio temporale che ci lasci intuire una trama.
Seguiamo i dodicenni Matteo e Samuele nel loro braccare l’esperienza, tracciare la conquista di ogni nuova scoperta, puro istinto in totale fusione con la natura, con una prospettiva che ricorda i fratelli Dardenne. Disattesa ogni aspettativa diacronica, l’effetto di straniamento si dissolve nella pura osservazione e nel piacere che deriva dall’esercizio di questo privilegio proibito.
Senza alcuna allusione ad una possibile storia che si vada a delineare all’orizzonte, non riusciamo a sviluppare alcuna forma di pregiudizio, a riportare il vissuto nei termini rassicuranti delle categorie entro i quali ogni emozione è già stata percorsa e questa nudità ci consegna ad una percezione pulita del puro accadere.
La novità dell’adolescenza ci viene donata come vuoto, spazio da riempire e riformulare con le parole sussurrate che la regia sceglie di non portare mai a nitore, ma lasciare all’intimità di una magia impubere e ancestrale.
È la creazione ex novo quella a cui assistiamo, nel rito della notte trascorsa ai confini di ciò che è conosciuto, quando si è chiamati a scegliere cosa tenere al sicuro: una pacificazione dei sensi, il ricordo evanescente di un nome, una connessione telefonica che possa ancorare alla terraferma.
L’anima può perdersi o essere predata, a quell’età, come sanno bene le società ‘primitive’ (come ci rassicura chiamarle) che nei rituali di passaggio saggiano la capacità di affrontare la durezza della vita e tanto acuminata è la consapevolezza che ne abbiamo che la scena del bosco si fa insostenibile.
Non sappiamo cosa accade quando i due amici si separano, ma sperimentiamo l’abbandono, l’alterità che irrompe nel mondo fusionale e solo dopo un ricongiungimento che sembra rimandare al Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir, la magia viene ripristinata.
Il film diventa documentario nel momento preciso in cui l’acqua finisce sulla macchina da presa e lo sguardo sorpreso di Matteo ne materializza la presenza, per la prima volta dall’inizio del film: è un lampo appena, ma basta a riattivare lo scorrere del tempo.
Fabio Bobbio è riuscito ad ottenere una straordinaria trasparenza di regia e a costruire un solido film senza affidarsi al sostegno di una sceneggiatura, ma limitandosi a riprendere i due ragazzi in situazione e registrare le loro reazioni. E se l’impianto del film è quello di un documentario, il risultato che ne deriva ha la poeticità intatta di un film di finzione capace di condurci a una completa immedesimazione e permetterci di respirare il tempo lento che avvolge i due protagonisti. Perché se il cinema ha bisogno di una trama, la vita spesso sa farne a meno.