“I Figli del fiume giallo” è il nuovo film di Jia Zhangke, pluripremiato regista Cinese, autore de “Il tocco del peccato”.
“I figli del fiume giallo” racconta la storia di Qiao (Zhao Tao), ballerina innamorata di un gangster, Bin (Liao Fan). La donna si trova coinvolta in un combattimento tra bande locali e per difendere l’uomo, spara un colpo di pistola. Finirà cinque anni in carcere. Dopo il suo rilascio Qiao cercherà Bin per riprendere la sua vita con lui. Ma non tutto è rimasto come prima.
I figli del fiume giallo, la recensione del film
Per Jia Zhangke l’universo autoriale espanso è il risultato di un discorso concettuale a spirale che toccando sempre i medesimi punti scende in profondità. La significazione del suo cinema guadagna dalla serializzazione degli stessi ambienti, degli stessi interpreti e degli stessi momenti cinematografici perché la ripetizione non è dovuta a una mancanza di idee ma all’intervento retroscopico su una singola idea: intercettare la transitorietà dell’umano mediante la descrizione della transitorietà del mondo. Per farlo il regista torna sugli stessi luoghi emotivi e sovrascrive una storia passata attraverso una nuova visione capace di rivelare buchi neri emotivi e pieghe irrisolte.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f2b715″ class=”” size=””]I figli del fiume giallo infatti recupera scene e immaginari dai precedenti lavori del regista per descrivere secondo rinnovata grammatica creativa la contingenza degli amori nella Cina del ventunesimo secolo, pervasa da continui mutamenti socioculturali.[/perfectpullquote]
Ancora una volta una miniatura romantica – la storia di Quiao (la magnifica Zhao Tao) e Bin (Liao Fan), amanti uniti nel sottobosco criminale e poi allontanati dalle reciproche scelte – è spalancata e tradotta in una metafora macroscopica rappresentativa del mutamento del contesto e del peso del divenire nel quotidiano: il momento amoroso dei due individui, dilatato in tre tempi calati in atmosfera instabile, riassume in un movimento figurativo i giganteschi e lenti rinnovamenti della Cina contemporanea e a livello tematico, congiunge una riflessione politica sul trasformismo dell’ideologia cinese, ad un ragionamento teorico sulla natura transitoria del sentimento. Il vantaggio della simbiosi di questi paralleli è quello di mettere in risalto l’unica informazione – politica ed esistenziale – che deriva dall’analisi del mondo-ambiente: il movimento insegna che stando immobili si soffre. Sia per la struttura sociopolitica che per l’espressione sentimentale è dannoso non accettare il cambiamento invisibile, ancorandosi a una posizione di negazione.
Zhangke lo suggerisce con la disposizione dei corpi nello spazio: vivi se in movimento nella invisibile corrente trasformativa, affranti e distrutti dal peso della realtà quando fermi in mezzo all’inquadratura. Le immagini descrivono l’impossibilità di opporsi alla contingenza: nella Cina del suo racconto chi rigetta il cambiamento e cerca di piantarsi nella nostalgia viene eliminato, chi lo accoglie passivamente viene travolto dell’attrito con la realtà. Solo chi lo comprende si solleva suo malgrado, e infatti la cenere che si abbandona alla disintegrazione vulcanica è detta “il bianco più puro”.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f2b715″ class=”” size=””]Per nessuno in ogni caso è possibile salvarsi dalla transitorietà, anche cercando di ancorarsi alle regole del codice mafioso, al proprio passato, agli amori di un tempo, alle idee politiche; neanche le identità restano ferme.[/perfectpullquote]
Il discorso di genere nel film non è irrigidito dalla fissità, ma è liberato nell’intercambiabilità che la narrazione suggerisce mediante il ribaltamento, la contrapposizione chiasmica dei rapporti di forza tra uomo e donna.
I figli del fiume giallo rappresenta il movimento continuativo del cambiamento degli amori e delle idee e allo stesso tempo descrive la pressione dolorosa che si infrange su chi nuota contro il flusso del tempo. La piattaforma temporale estesa permette di analizzare il lungo viaggio esistenziale delle psicologie dei suoi protagonisti, proprio per questo, senza distinzione tra privato e pubblico, intimo e politico, piccolo e grande, Zhangke riesce a teorizzare disponendo i corpi nello spazio, cantandone l’inconsapevole erosione e mantenendo il distacco che contraddistingue gli osservatori lucidi.
Non è un caso che l’immagine conclusiva non sia una soggettiva amorosa pregna di empatia e feticismo, ma quella di una telecamera che inquadra un personaggio non al corrente della propria deformazione, dovuta al tentativo di opposizione della transitorietà. La prospettiva dell’autore è commossa non perché emotivamente partecipata ma perché posizionata un livello ignoto ai partecipanti della finzione, un livello capace di muovere e osservare e piangere in continuazione la loro dispersione nel tempo.
La ripetitività della spirale dell’autore conduce al punto metatestuale da cui osservare la circonferenza della sua storia. Dalla prospettiva del punto si immagina un’archeologia del futuro.