Ecco i venti film che la redazione cinema di indie-eye ha scelto come rappresentativi del 2015. La selezione è stata fatta riferendosi ai film usciti nelle sale italiane dal primo gennaio 2015 fino ad oggi.
1) American Sniper di Clint Eastwood
American Sniper è un film attraversato da continue ambivalenze, aderente e in opposizione rispetto al sentimento patriottico, vicino al dolore della perdita ma ferocemente distante, mostra ancora una volta l’ambiguità del punto di vista, in una continua messa a fuoco e rifinitura dell’immagine soggettiva
2) Sicario di Denis Villeneuve
Sicario è l’incontro tra flaneur e fugueur nella sovrapposizione terribile tra scoperta dello sguardo e cecità del vagare a vuoto. La sospensione onirica che consente al flâneur Benjaminiano di rimanere a metà tra la propria coscienza e lo spazio materiale non ha più le caratteristiche di un nascondiglio sicuro perchè il passaggio di una zona di frontiera nel film di Denis Villeneuve annichilisce le facoltà dello sguardo fino alla cecità. L’unico recinto di luce, sorge dallo spazio dell’esilio.
3) Francofonia – il louvre sotto occupazione di Aleksandr Sokurov
Il discorso sull’arte che modifica, trasfigurandole, le forme della realtà, le arricchisce di ellissi e di allusioni, ne completa il significato piegandole alle più svariate esigenze narrative, in Francofonia è al servizio di una rêverie che intreccia Storia e finzione, mentre si interroga sul suo valore e sul dovere dell’uomo di salvaguardarla.
4) Vizio Di Forma di Paul Thomas Anderson
Vizio di Forma assimila tutti i processi intertestuali, metatestuali e transtestuali che Pynchon ha costruito sia in forma prolettica che analettica, attraverso l’allusione e i riferimenti a generi letterari, cultura pulp, cultura scientifica, musica rock, filosofia, storia politica, cinefilia e al suo stesso multiverso narrativo, per portarli “someplace else”. Quella del cineasta americano è una profonda penetrazione del testo Pynchoniano, riallocato alla luce del suo cinema, una commistione che miracolosamente occupa un luogo di appartenenza e di spossessamento che è di Anderson e di Pynchon allo stesso tempo. È un limen separato dall’autorità del testo, tanto che ci si potrebbe avvicinare al film senza aver per forza letto i romanzi di Pynchon
La forza destabilizzante di Blackhat risiede nella complessa coesistenza di un contesto politico autoritario e distopico con l’emergere inarrestabile di una realtà possibile ed eterotopa; l’interesse che Mann dimostra nei confronti della vicenda Stuxnet dischiude una lettura stratificata che si dibatte tra NSA e Blackhat, potere e dissoluzione di tutti i confini conosciuti. Il cyberspace per Mann non è un mondo semplicemente “immateriale”, ma parte di un tessuto complesso che si manifesta attraverso continue risemantizzazioni e passaggi, un intreccio promiscuo tra immediato e mediato, tangibile e liquido, aptico e virtuale.
Come nelle tele del suo pittore prediletto la tensione compositiva si placa nella pennellata sicura e nell’addensarsi dell’atmosfera in masse compatte e cromatismi vigorosi e densi, così lungo le due ore e ventinove minuti del racconto filmico Leigh compone con mano sicura lo scontro/incontro di una personalità fragile e bizzarra, solitaria, contraddittoria e a volte disarmata, con le forme sublimi della sua creazione artistica, guidandoci alla sua scoperta con l’amore del discepolo.
7) Diamante Nero di Celine Sciamma
Il femminismo di Céline Sciamma è quello intersezionale, attento ad osservare l’interazione fluida tra identità plurali senza necessità declamatorie. E il cinema della Sciamma, mai come prima, diventa fortemente politico con l’apparente leggerezza di un film modulato su ritmo, corpi e colori e l’intenzione di inventarsi un territorio apolide anche dal punto di vista della commistione di linguaggi. Diamante nero è un film dal grande fascino poliritmico che prima ancora di dirci come dovrebbe essere la realtà, ne racconta l’urgenza politica con tutta la gamma di contrasti, tra incontenibile forza vitale e angosciante incertezza.
8) Memorie in viaggio verso Auschwitz di Danilo Monte
Danilo Monte è regista, direttore della fotografia, montatore. Curriculum breve ma interessante, ha costruito sé stesso mentre il fratello distruggeva sé e chi lo circondava. Questo viaggio nasce dalla semplicità di un gesto fraterno, un tendere la mano nella speranza che venga afferrata, e solo un fratello poteva ricucire una storia strappata riannodandola ad un’infanzia vissuta insieme, trovando proprio in quel passato la parola giusta da dire. Storia memoriale, dunque, dove i ricordi sono racchiusi in brevi filmini amatoriali che, in formato ridotto, s’incuneano a tratti, in ordine cronologico inverso, dal presente al ’90, fra le riprese che vanno avanti e, da una stazione all’altra, arriveranno ad Auschwitz
9) Mad Max Fury Road di George Miller
Prodigiosamente, Miller riesce a mettere nello stesso spazio, oltre al suo cinema, quello del primo Raimi e dell’ultimo Peter Jackson, in quella furibonda concezione del movimento che passa dalle mutazioni dell’animazione alla forma di un cinema totale finalmente possibile grazie allo sconfinamento di linguaggi e formati nell’era digitale. Nel propellente ritmico di una sinfonia industriale si innestano segni e motivi dell’arte e della cultura aborigena. Un ponte tra arcaico e futuro.
10) Il ponte delle spie di Steven Spielberg
È davvero uno specchio quello che produce tutti i riflessi nell’ultimo, bellissimo, film di Steven Spielberg? Spielberg gioca continuamente elaborando sulla struttura del cinema classico che ama (Capra, Ford, Hawks) un livello conversazionale che oscilla tra motto di spirito e un’idea di cinema sempre più rara, dove l’immagine è chiarissima e allo stesso tempo aperta a molteplici possibilità rispetto al suo significato letterale.
11) Vergine Giurata di Laura Bispuri
“Vergine Giurata” di Laura Bispuri è uno scavo silente, durissimo, che elide la parola oppure la riduce ad un elemento funzionale alla realtà petrosa dell’immagine, senza ricorrere ad un surplus didascalico di poeticità, ma lasciando che questa emerga dal corpo e dal gesto, dai graffi sulla schiena di Alba Rohrwacher, dalla costrizione come immagine che contiene, visivamente e “direttamente”, il suo rovescio politico
12) Louisiana di Roberto Minervini
L’obiettivo di Minervini sembra quello di intersecare la propria voce con quella dei suoi non-attori nel tentativo di farle sopravvivere entrambe, la paura e il desiderio sono le stesse pur se indirizzate verso destini molto diversi. Ciò che rimane e che allo stesso tempo rende il suo cinema tra i più potenti in circolazione è un grado di compenetrazione e intensità talmente forte da rivelare l’unico spazio di libertà possibile nella relazione tra soggetti della visione.
Ant-man si qualifica come uno dei migliori prodotti usciti negli ultimi anni dalla casa delle meraviglie, per il modo in cui il territorio delle combinazioni diventa spazio ricco di riferimenti, ma allo stesso tempo nuova terra da fecondare.
14) Per Amor Vostro di Giuseppe M. Gaudino
Quello di Giuseppe M. Gaudino è un cinema inarrestabile e danzante dove in un solo spazio possono coesistere molteplici strati di realtà. Per amor vostro è un film straordinario, fatto di continue trasformazioni, quasi a chiarire una volta per tutte la natura vertiginosamente transitoria del cinema mentre convenzionalmente ci si attarda a distinguere documento da fiction. Un salto nel vuoto diventa quello del tempo, l’attraversamento di uno strato che mette in comunicazione mente e schermo, senza più rete, senza più palpebre.
15) N-Capace di Eleonora Danco
Ironico, surreale ed estremamente viscerale il film di Eleonora Danco. Le presenze che si scontrano in N-Capace non sono solo “teste parlanti” ma corpi pulsanti, componenti endogene del degrado suburbano e detriti trascinati dalla corrente implacabile del fiume del cambiamento.
Jennifer Kent filma con estrema attenzione, con mano fermissima, senza eccessi, un’opera minimale e di eleganza estrema trovando nel fantastico il substrato ottimale per un racconto che nutre la sua tensione proprio in tutti quei segni che da sempre fanno da stimolo all’immaginario orrorifico
17) Timbuktù di Abderrahmane Sissako
Sissako si è ispirato ad una storia vera (una delle tante) di quei tristi tropici, storia di insabbiamento e lapidazione visibili in un brevissimo flash di insopportabile durezza, e ne ha fatto un racconto libero e inventivo, in cui funzione narrativa e aspetti antropologici della rappresentazione convivono con un’attualità mai come oggi urgente. Film corale, pellicola lacerata tra la greve brutalità di bande armate che stuprano territorio e uomini e la commovente leggerezza di donne, uomini, bambini che la violenza sfianca e afferra come la gazzella del deserto, spoglia il suo linguaggio di ogni spettacolarità in nome di un’esigenza di verità che tocchi il cuore delle cose, che affidi alla verità del cinema quello che cronaca e Storia sono incapaci di dire.
18) Un disastro di ragazza di Judd Apatow
È sorprendentemente sottile l’antropologia della coppia che Apatow/Schumer raccontano attraverso la rutilante distruzione di qualsiasi convenzione, da quella famigliare alla deriva anaffettiva. La disfunzione, nel cinema di Apatow, non è semplicemente una questione legata alla storia famigliare dei suoi personaggi, ma coinvolge l’organizzazione stessa dello spazio performativo, le convenzioni della commedia romantica e anche l’inquadratura come veicolo unitario del senso
19) Ritorno alla vita di Wim Wenders
Era quindi necessario che Wenders ripartisse proprio da qui per rilanciare il suo cinema? Perché no, se nel gioco affettivo, ci spinge a riflettere sul nostro modo di essere in una relazione quasi fosse a filmare dentro il set di un film di Sirk, ma mostrandoci comunque uno straniante sonnambulismo, che come nei piani dell’immagine stereoscopica, si sdoppia tra presenza e assenza, cinema del passato e cinema del futuro. Per rappresentare questa presenza anelata, il chiasmo della terza dimensione era semplicemente una possibilità.
20) The Tribe di Myroslav Slaboshpytskiy
il sottobosco criminale degli studenti sordomuti fa parte di un lavoro di documentazione che lo stesso Slaboshpytskiy porta avanti da moltissimi anni e che ha origine dalle sue esperienze personali, la scuola dove ha girato il film infatti è quella che ha frequentato in giovane età situata di fronte ad un istituto per sordomuti. Si tratta dal primo contatto che Slaboshpytskiy stabilisce con quella realtà, prima come osservazione a distanza e improvvisamente in tutta la sua fisica brutalità attraverso gli scontri violenti che si verificavano per strada tra i ragazzi dei due istituti. È da qui che nasce la storia di Sergey (Grigoriy Fesenko), del suo arrivo a scuola e della sua progressiva discesa in un mondo parallelo fatto di reati, soprusi, sfruttamento della prostituzione e riti di passaggio basati sulla violenza. Un punto di vista che Slaboshpytskiy decide di mantenere fisso come allineamento alla frontalità immediata e diretta della lingua dei segni ma allo stesso tempo indirizzandolo allo spettatore, parte attiva e complice della crudeltà rappresentata.