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I Miserabili di Ladj Ly: recensione

Esiste la Francia realizzata, unita, che il regista di origine maliana Ladj Ly ha ripreso mentre si riversava nelle strade di Parigi per festeggiare la vittoria ai Mondiali del 2018? Forse è solo un’antinomia, perché l’Arco di Trionfo che per qualche istante appare all’inizio de I miserabili , come ad abbracciare con il suo simbolismo una nazione ipotetica, sparisce per non lasciare traccia, e quei ragazzi usciti da Montfermeil per andare a Parigi in occasione della finale poi nel comune-ghetto saranno confinati.
Da quando nel 1995 Mathieu Kassovitz aprì le porte dei cinema alla realtà delle banlieue con quel grande film che era L’odio, si è sviluppato in Francia un vero e proprio filone: La schivata, Banlieue 13, Lascars, Diamante nero, Deephan, Fratelli nemici, Madame Courage, il recentissimo Gagarine… I miserabili si aggiunge all’elenco senza aggiungere molto per un pubblico che ormai è conscio della drammatica situazione delle periferie francesi. Ma l’originalità è così importante?

Forse no, e il successo di critica potrebbe allora essere dovuto all’importanza di ribadire una volta di più l’intollerabilità dell’esistenza in seno alla civiltà occidentale di mondi a sé stanti, emarginati, abbandonati, oppressi.

Eppure, il valore del film di Ly supera anche questa necessità.

Che I miserabili perda il paragone con L’odio è vero e non rilevante, e se è impossibile per chiunque fare cinema sulle e nelle banlieue senza tener conto dell’esistenza del film di Kassovitz, questi non è nemmeno un riferimento così pervadente per Ly, che de L’odio rifiuta l’estetizzazione e il punto di vista interno.

I miserabili fa un passo indietro per tentare di osservare l’insieme, e nel suo vagare tra le strade di Montfermeil racconta la polizia, la maggioranza nera, la congrega islamica, le altre minoranze etniche, i bambini in mezzo a questa realtà frammentata. Ancora però non siamo al cuore del film.

Che nel suo film tutto sia consueto Ly lo sa (una consapevolezza rara e ammirevole in un esordiente), e con la sensazione di “già visto ma ben fatto” del pubblico gioca. Perché Ly costruisce un finale che è un tripudio di banalità: nessuna conseguenza davvero grave degli abusi, la riconciliazione del pubblico con alcuni personaggi, c’è persino l’inquadratura conclusiva sul tramonto tra i palazzoni di Montfermeil.

I miserabili però non è finito.

Perché quello che succede nelle banlieue non può trovare una conciliazione. La violenza, fisica e sociale, crea un magma su cui non si può scrivere “Fine”, “The End”, “Fin”. Così Ly continua a raccontare oltre quella che sembrava una conclusione ma conclusione non poteva essere e lo fa radicalizzando la sua estetica e la sua narrazione.

Il finale, quello vero, è per qualcuno eccessivo ed estremo, ma vedere il film oggi, a un anno dal suo debutto a Cannes, ci dà la possibilità di renderci conto che non è così estremo ed eccessivo semplicemente guardandoci attorno, se non riusciamo a tornare con la mente al 2005, quando anche nella banlieue di Montfermeil…

I miserabili si conclude così con una paradossale narrazione circolare, che come in un nastro di Möbius torna al principio ma dal lato opposto e la festa e la coesione iniziali sono ribaltate.

La sua uscita posticipata potrebbe farlo apprezzare ancora di più, perché appunto si ritrova a essere un perfetto specchio dell’attualità più stringente, come avesse anticipato le rivolte statunitensi.

Ma se troviamo il film predittivo è perché noi che viviamo fuori dalle banlieue e le conosciamo attraverso il cinema crediamo nel primo finale, crediamo e contiamo nella riappacificazione sociale.

Ly con gran gusto cinefilo ci ha detto di non illuderci.

Aveva ragione. Anzi, ha ragione.

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