Augusto, Alessandro, Giulia e Leone, onomastica di antiche e solenni memorie per i quattro rampolli di una decaduta famiglia della piccola borghesia agraria di Bobbio.
Nello spazio claustrofobico del palazzo di famiglia, soli a confrontarsi con le loro tare mentali, vivono con la madre cieca (Liliana Gerace), presenza ininfluente e amorfa, un peso e un’inutile bocca da sfamare che sparirà ben presto, lasciando campo libero al caos esistenziale dei quattro figli.
Pochi gli esterni, la strada tortuosa che corre lungo il costone roccioso a strapiombo è funzionale alla svolta cardine della vicenda, ma il dramma si consuma tutto in una quotidianità spalmata fra i due piani del palazzo, lungo le sue scale, giù dalle finestre da cui, all’indomani del funerale della madre, si butteranno vecchi mobili e ricordi di famiglia in un assurdo gioco crudele di annullamento senza redenzione.
Bellocchio elabora così un campionario esemplare della devianza interna alla famiglia.
God of Carnage è Alessandro (Lou Castel), schizofrenico ed epilettico, una specie di angelo sterminatore travolto da un’inguaribile pulsione di morte.
L’attrazione morbosa per la sorella Giulia (Paola Pitagora) alimenta la sua rabbia, la famiglia è il cappio di cui sente il peso, ma i suoi tentativi di opporsi al clima soffocante in cui vive sono solo la messa in scena del suo disordine mentale.
Leone (Pier Luigi Troglio) è un minus habens, chiuso in un mutismo catatonico da cui esce solo per esprimere la sua disperazione impotente (e dire, forse, le cose più ragionevoli), mentre Giulia, infantile e bizzarra, dominata da qualcosa che somiglia molto ad una passione incestuosa per Augusto (Marino Masè), il fratello maggiore, è segnata da un’attitudine alla vita di assoluta superficialità, una specie di falena impazzita che ruota intorno alla lampadina accesa.
Fra i quattro, quello apparentemente più normale è Augusto. Questa normalità, però, altro non è che la sua coerenza perfetta con il cinismo della piccola borghesia a cui appartiene con la fidanzata Lucia (Jeannie McNeil), pétite dame senza colore.
Bellocchio tende a riprenderlo sempre di scorcio, in semiombra, testa piegata da un lato e sguardo sfuggente. Spesso inquadrato da uno specchio, la frontalità non si addice ad Augusto, la vanità sì.
Sul fondo, comparse appena abbozzate, le pie donne e i parenti che pregano al funerale della madre, scena centrale del film, improvvisamente ravvivata da uno di quei contrasti fulminei che irrompono spesso nel film con evidenza sarcastica e spiazzante.
E’ il prete con la sua predica di prammatica prima che il feretro esca di casa. Forte cadenza romagnola, allinea citazioni manzoniane e pie frasi di repertorio liturgico in un potpourri da far tremare. Quasi a compensare tanta pietas, i chierichetti giù in cortile stanno facendo un chiasso indiavolato, ma nessuno se ne cura.
Alla sua opera prima Bellocchio elabora scelte stilistiche sicure che fanno de I pugni in tasca un’opera che supera agevolmente il suo tempo, pur rispecchiandone umori e visioni.
Era il 1965, molto stava per accadere e sarebbe esploso di lì a poco, solo un anno prima usciva la rivoluzionaria psicopatologia della vita quotidiana di Laing ed Esterson.
Normalità e follia nella famiglia parlò a tutti della “culla sociale” come della patria più autentica dell’ego e delle sue devianze. I giovani raccolsero il messaggio, la rivoluzione era alle porte.
Bellocchio scelse il cinema e affidò la sua rivolta a distorsioni drammaturgiche di marca quasi espressionistica, alla gestualità protesa fino all’urlo e allo spasmo epilettico, all’oscillazione fra distorsione psicotica del reale e trend di ordinaria normalità.
Fra individualismo esasperato fino alla follia e persistenza di modelli sociali imposti dall’istituzione, famiglia, chiesa, partito, I pugni in tasca furono una lacerante profezia del futuro prossimo venturo, quando le generose e magari anche anarchiche istanze di rivolta e lotta divennero “… i pugni rimasti stretti nell’angustia di una progressiva incapacità di azione”.
Come affermava lo stesso regista rispondendo alla domanda di Ugo Casiraghi sul senso del titolo:
“I pugni in tasca vorrebbe esprimere l’atteggiamento volontariamente malato di Alessandro, nel suo comportamento pubblico e famigliare; atteggiamento di rivolta a una condizione esistenziale che non si manifesta mai sotto forma di cosciente rifiuto, ma che si esalta nella solitudine e prova la sua forza in un’arca fantastica dominata dai sogni, dove le frustrazioni e le impotenze si accumulano e si moltiplicano”.
Il cinema, in Italia e fuori, parlò con la sua naturale preveggenza della famiglia come luogo della disuguaglianza, dove il ricatto affettivo neutralizza, rendendolo inservibile, il ruolo di socializzazione ed educazione. Con l’istituzione sul banco degli imputati la storia dei cinquanta anni successivi cominciò anche da quel finale grottesco de I pugni in tasca: Ale che si dimena sul pavimento come un pesce fuor d’acqua nell’attacco che lo porterà alla morte urlando aiuto e Giulia che resta immobile nel letto. Le sue gambe sono paralizzate o è solo paralisi della volontà, non lo sapremo mai, ma il filo solidale si è rotto, non resta neanche quella fratellanza, malata quanto si vuole, ma che pure aveva un senso, prima della rivoluzione.
Ora si muore soli mentre Violetta canta “… sempre libera degg’io / folleggiare di gioia in gioia …”, i suoi gorgheggi riempiono la stanza e l’acuto finale si protrae all’infinito coprendo le urla di Ale.
Torna sui titoli di coda il tema che Ennio Morricone elaborò costruendo sonorità di forte suggestione diegetica, il ritmo di una ninna nanna è quello che predomina, un rintocco ovattato di campane a distanza accompagna la cadenza lenta di una nenia in un paesaggio autunnale spoglio.
Le ultime parole di Ale per Giulia erano state: “ Tutto va nel migliore dei modi, dormi”.
I Pugni in tasca, di nuovo in sala nella versione restaurata dal 19 ottobre scorso, è ancora “in tour” nelle principali sale e cineclub italiani. Questa la lista completa delle programmazioni