venerdì, Novembre 22, 2024

I sogni segreti di Walter Mitty di Ben Stiller: dal disegno al sogno

The Secret Life of Walter Mitty è il racconto breve più noto tra quelli scritti da James Thurber, disegnatore, umorista e vignettista Americano attivo tra i primi anni quaranta e la fine degli anni cinquanta.

Pubblicato per la prima volta sul New Yorker nel 1939, è la storia di un sognatore ad occhi aperti, che durante i pomeriggi di shopping della moglie si perde in una sequenza di cinque fantasticherie, immaginandosi incredibili ed eroiche avventure. Quasi dieci anni dopo, Samuel Goldwyn produce un film ispirato al racconto di Thurber, diretto da Norman Z. McLeod e interpretato da Danny Kaye, dove rispetto all’intimismo bozzettistico di Thurber, l’influenza della letteratura pulp di quegli anni diventa l’occasione per costruire un ricco universo metavisivo che si serve di numerosi stimoli della cultura Americana contemporanea, dalla diffusione dell’advertising di massa fino ovviamente al cinema di genere.

Ma oltre ai noti sogni proibiti di Kaye, c’è un altro personaggio che nasce dalla matrice di Mitty ed è Ralph Phillips, creatura della scuderia Looney Tunes, che tra il 1953 e il 1957 compare in due disegni animati firmati da Chuck Jones. I due cartoons, se si esclude la forma episodica apparentemente ben radicata nella formula di ingresso-uscita d/ai mondi immaginari che “Sogni proibiti” di McLeod amplifica dal racconto di Thurber, sono posseduti, in puro stile Jones, da un’incessante mutazione della forma, che trasforma i sogni di Ralph in un’avventura libera e astratta del tratto; basta pensare alla battaglia a fil di spada con le formule matematiche segnate sulla lavagna di scuola in From A To ZZZ oppure all’areoplanino di carta rossa che nel successivo Boyhood Daze  penetra dalla camera del ragazzo in una serie di mondi dalla consistenza liquida, instabile e possibile.

Ben Stiller gira la sua versione di The Secret Life of Walter Mitty in 35mm, servendosi di una serie di interventi CGI in fase di post produzione, così da conferire al film un movimento continuo di natura anche grafica, che oltre ad una versione espansa e ripotenziata dell’esperienza di Saul Bass, fanno pensare più a Chuck Jones che non al film di McLeod, con il quale l’unico legame “a distanza” è probabilmente garantito dalla produzione di Samuel Goldwyn Jr.

Il Walter Mitty di Stiller è un uomo timido e solitario che ha speso buona parte della sua vita negli archivi fotografici di LIFE a selezionare negativi per le copertine della nota rivista; è attraverso il suo lavoro metodico e certosino che stabilisce una relazione elettiva con Sean O’Connell, figura di foto-reporter avventuriero interpretata da Sean Penn, la cui esistenza rimane sospesa in una dimensione fantasmatica, quella del foto-documentarismo pre-digitale che rappresentava l’essenza stessa di LIFE, e che si interrogava ancora sull’irriducibilità dell’istante alla prassi dello scatto; in una delle sequenze più belle del film, O’Connell, davanti all’apparizione di un leopardo delle nevi, non userà la macchina raccontando “come le cose belle non reclamino attenzione“, e mantenendo così ancora intatta la relazione tra visibile e invisibile.

È su questo limite che Ben Stiller costruisce il suo film più ambizioso, mutuando proprio dall’animazione, quindi dallo spirito più “puro” del Cinema di Chuck Jones, una visione che dai suoi stessi detrattori è stata definita come “vuota di senso” ma che in realtà, proprio su questo girare a vuoto mette in moto una portentosa avventura in continuo movimento che rielabora molti stimoli del romanzo di formazione Americano, da Salinger fino a certe intuizioni della nuova Hollywood degli anni ’70 (DePalma, Coppola, Scorsese e più avanti Spielberg) dove la ricerca di se stessi diventa un propellente endogeno ed esogeno all’immagine stessa.

È sorprendente come Stiller riesca a cavalcare l’onda di un viaggio possibile e infinito, rompendo la cornice a doppia entrata del racconto di Thurber,  in modo da superare la tradizione post-moderna trasponendola in quello strappo ancora vivo e sanguinante tra cinema tradizionale e nuovi dispositivi digitali; non è solo la proliferazione del punto di vista come agente di uno sguardo disincarnato, ma anche il segno grafico che dall’animazione dei primi decenni del novecento arriva sino alle Kinetic Typography reiventandosi l’ingenuità e l’astrazione delle origini.

Da una parte Stiller mantiene un legame con il travelogue novecentesco nello stile del viaggio letterario interiore, tanto che lo scatto segreto potrebbe indicarci un falso movimento, come se il nostro non si fosse mai mosso dal laboratorio collocato nei sotterranei di LIFE. Dall’altra l’idea di cinema che persegue è quella di una serie incessante di spaccature e cicatrici nel flusso del racconto da offrire ogni volta una nuova prospettiva alla lettura degli eventi, come a dire che il virtuale può determinare l’andamento della realtà per come la conosciamo, scambiando la collocazione tra interno ed esterno.

Del resto  Reality Bites, il suo esordio dietro la macchina da presa, era già il rovescio dell’immagnario MTV , il suo stesso futuro fuori dal guscio protettivo dei contenitori tematici e allo stesso tempo un tenero omaggio all’estetica ‘alternative’ nata in quel contesto per essere rimasticata dall’industria.
Non è un caso allora che Stiller in Walter Mitty,  ad una sorta di Road Movie dell’anima sovrapponga questo dialogo continuo con l’admin di un esclusivo Social Network per utenti in cerca dell’anima gemella di cui fa parte, non tanto un surrogato della realtà, quanto una spinta a riconsiderare la propria collocazione in quel territorio che sta tra desiderio ed esperienza.

E se il ruolo di Mitty sembrerà a poco a poco identificarsi con la ‘rifinitura’ di uno sguardo altrui, è proprio su questa attenzione al dettaglio che Stiller sembra insistere; ri-guardare le cose, soffermarsi sull’unicità del punto di vista e sulla sua messa a fuoco, come fosse la scelta di andare più lento rispetto all’ipertrofia digitale che mette al centro i dispositivi. Quando potrà esprimere per la prima volta affinità con Kristen Wiig, preferirà lasciarsi alle spalle l’edicola che vende l’ultimo numero di LIFE, per non bruciarselo, con il proposito di tornare indietro, senza fretta, per procurarsene una copia.

Su questo prendersi il tempo necessario c’è l’idea di ritagliarsi il proprio guardando oltre il visibile e negando all’istantaneità la possibilità di annientare il punto di vista.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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