Sono gli anni tra le due Guerre Mondiali: l’Europa è una polveriera, la radio entra nei salotti di famiglia e i totalitarismi europei scoprono come smuovere milioni di animi a colpi di comizi via etere. In quegli stessi anni, Albert di York, secondogenito di Giorgio V, ascende suo malgrado la scala verso il trono britannico, malgrado una improvvida balbuzie ne abbia sempre funestato le uscite in pubblico. Accompagnato dalla moglie in una lunga trafila senza successo tra i più brillanti logopedisti del Regno, il travagliato Bertie troverà il bandolo della monarchica matassa nei metodi garbatamente spicci di Lionel Logue, scapestrato attore australiano riciclatosi come esperto nel tirare fuori una voce a chi è convinto di non averla. Attraverso una serie di bislacchi esercizi vocali ed infrazioni all’etichetta regale, scoprirà che per sentirsi all’altezza del fardello ereditario deve prima di tutto sentirsi all’altezza dell’uomo comune e della confidenza di un’amicizia, dimostrando la sofferta forza stentorea di un discorso patriottico stentato. Nonostante la derivazione teatrale risulti evidente, la trasposizione sul grande schermo acquista senso cinematografico grazie alla composta ma sostanziosa personalità dello sguardo di Hooper, che dopo The Damn United sul contraddittorio coach Brian Clough, si dimostra affezionato alle figure di englishmen anticonvenzionali, che hanno in qualche modo allargato i confini di ciò che è concesso ad una figura di pubblico dominio. A colpi di grandangolo, il regista rimpicciolisce Colin Firth di fronte al microfono e alle maestose abitazioni regali, lo ridicolizza (e quindi umanizza) in frenetici montaggi caricaturali, lo mette al muro in primi piani che valorizzano le stranianti carte da parati dalle decorazioni pastello, lo immerge , in definitiva, pietrificato in pose nevrotiche, nello sfarzo più mesto, opprimente e nebbioso che si sia visto di recente sul grande schermo. Nella stessa desolata compostezza, si barcamena il Logue di Geoffrey Rush, figlio di birrai australiani, dignitosamente ciarlatano ed ossessionato da un teatro vittoriano che, come l’entourage della corona, lo respinge in quanto inadeguato. Entrambi si riconosceranno nello stridore tra destino e phisique du role e, con esso, nell’ombra shakespeariana di Riccardo III e dal suo: il primo troppo convinto di somigliarli, il secondo troppo ordinario e provinciale. Se le lodi per il lavoro dei due protagonisti risulterebbero quasi pleonastiche, per l’autoevidenza della qualità delle prove mostrate, si può allora trovare in qualche ritratto banale e bozzettistico (il Churchill di Tim Spall e l’Edward di Guy Pearce), il difetto principale e trascurabile. Al di là di questo, Discorso del re, si dimostra prevedibilmente un ottimo film privo dello spunto del capolavoro, che sa (semplicemente?) inanellare nella corretta prospettiva personaggi, contesto e mezzi narrativi, trovando, come il suo protagonista, la propria voce per un racconto storico curioso ed elegante.
Il Discorso del Re di Tom Hooper (Gran Bretagna, 2010)
Il discorso del re, il nuovo film di Tom Hooper recensito da Alfonso Mastrantonio...