martedì, Novembre 5, 2024

Il Grande Lebowski di Joel e Ethan Coen torna al cinema: la recensione

Los Angeles. 1991. Da poco tempo è iniziata la Guerra del Golfo. Gli Stati Uniti contro Saddam Hussein. C’è attesa e trepidazione, i telegiornali non parlano d’altro. Tutti attendono notizie. Tutti tranne uno. A Jeffrey Lebowski, hippie disoccupato, uno degli uomini più pigri di Los Angeles, non importa niente della Guerra del Golfo. A dir la verità, Jeffrey Lebowski se ne frega di tutto. Non lavora e non ha ambizioni. Gli basta giocare a bowling, bere white russian e fumarsi qualche spinello. Tutti lo chiamano Dude, la cui vera traduzione sarebbe tizio, ganzo e non drugo come nella versione italiana. Una sera, di ritorno dal bowling, trova in casa ad aspettarlo due loschi figuri che lo picchiano, gli pisciano sul tappeto e gli intimano di pagare i debiti accumulati da sua moglie. Strana faccenda, anche perché Jeffrey Lebowski non ha moglie. Si tratta, in realtà, di un caso di omonimia, perché il Lebowski in questione è un altro, un ricco invalido che ha sposato una giovane attricetta senza fama e senza lode. Il nostro protagonista pretende dal miliardario il risarcimento del suo tappeto, ma questi gli affida l’incarico di risolvere il misterioso rapimento della giovane moglie.

Basta così. Non occorre aggiungere altro alla trama di un film che è diventato leggenda. Il grande Lebowski torna nelle sale a sedici anni di distanza dalla sua uscita e c’è da scommettere che sarà un grande successo. Strana la storia che ha accompagnato l’inarrestabile successo di questo film che fu accolto tiepidamente dal pubblico e dalla critica. Bizzarra anche l’adorazione che intere generazioni hanno nei confronti dei personaggi, a cominciare ovviamente da Dude, interpretato alla grande da Jeff Bridges. Ci sono poi Walter, il polacco cattolico convertito all’ebraismo, reazionario e con l’ossessione per il Vietnam; Jesus, il giocatore di bowling pederasta; Jackie Treehorn, il produttore di film porno; Maude, la miliardaria femminista che gioca a fare l’artista concettuale; e ancora la banda dei nichilisti, parodia in chiave grottesca dei drughi di Arancia Meccanica: una galleria di personaggi indimenticabili, immersi in una vicenda illogica, confusionaria, senza un inizio e una fine.

Con Il grande Lebowski i fratelli Coen usano il metro grottesco e ironico per realizzare un film che destruttura la struttura classica hollywoodiana e, al tempo stesso, apre una nuova fase che va oltre il postmodernismo. I Coen attingono a piene mani alla tradizione ma il loro non è un citazionismo che si risolve nel semplice gusto estetico; si arriva infatti a ridiscutere i generi e il senso di un’opera che vuole essere dinamica e propositiva. Analizzando brevemente il “parco” delle citazioni presenti nel film, vediamo come la sceneggiatura (tutt’altro che labile, come molti pensano) si ispira liberamente alla letteratura hard-boiled e più specificatamente a Il grande sonno di Raymond Chandler e all’omonimo film di Howard Hawks. L’ambientazione oscilla tra noir e western mentre i personaggi sembrano usciti dalle commedie pulp (e per certi versi trash) degli anni ’70. Il tuffo nella tradizione genera un pastiche che nel suo non senso, negli accostamenti azzardati acquista una vitalità propria che rinnova i canoni del cinema.

Così come i grandi valori vengono demistificati, anche a livello semiotico il capovolgimento apportato dai Coen è evidente, fin dall’inizio. Emblematica, in tal senso, è la sequenza iniziale, dalla struttura fortemente legata alla tradizione: una voce over introduce la storia e i personaggi passando dal generale (la metropoli di Los Angeles) al particolare (la presentazione di Dude). Ma è solo apparenza perché se da un lato la voce over perde fin da subito il controllo sulla storia e sui personaggi (non riesce nemmeno a caratterizzare il protagonista), dall’altro il film frantuma ogni consequenzialità, si perde dietro una miriade di storie e di micro-storie. Il gioco dei fratelli Coen è sottile e prosegue in tutto il film. Circa a metà della pellicola, la voce over entra nello spazio filmico, si fa personaggio e dialoga con Dude, interrompendo di fatto il flusso narrativo. Nel finale poi, il personaggio/voce over interpella direttamente lo spettatore con uno sguardo in macchina che sfata il mito del narratore onnisciente e arriva a ridiscutere in termini grotteschi anche il concetto di autorialità.

Lo stesso meccanismo è presente nelle sequenze oniriche, vere e proprie sospensione narrative, parentesi nelle quali il cromatismo oscuro fa da contraltare ai desideri di Dude, che non hanno niente a che vedere con il perturbante, con pulsioni represse, ma ruotano attorno alla passione per il bowling e per le donne.

Questo e altro ancora è Il grande Lebowski: un film leggenda che ha per protagonisti personaggi tipici della cinematografia coeniana: i perdenti, gli esclusi, gli emarginati. Una realtà che sta ai margini, che spesso si smarrisce, ma che altre volte si tiene a galla con la dignità. Questo è Jeffrey Lebowski, un tizio che sa di essere escluso dai piani che contano, che non chiede altro alla vita che essere lasciato in pace. Un tizio che ha scelto di non emergere, di rimanere nell’ombra e di adottare uno stile che si addice alla perfezione a un manuale di sopravvivenza. Con il suo disincanto, con la sua ostinata pigrizia, con la ferma volontà di non cercare a fondo le spiegazioni, Lebowski conserva quella decenza e quell’umanità che lo distinguono dal resto della società. La vita di Dude è una palla che rotola lontano, chissà dove. Rotola come una palla da bowling, come la palla di fieno che vaga a inizio film per le strade deserte di Los Angeles. Al bando l’avidità e il denaro. Basta poco per vivere. Una partita di bowling, uno spinello e un white russian. Il futuro… chissà.

Michele Nardini
Michele Nardini
Michele Nardini è laureato in Cinema, Teatro e produzione multimediale all’Università di Pisa e ha alle spalle un Master in Comunicazione pubblica e politica. Giornalista pubblicista, sta maturando esperienze in uffici stampa e in redazioni di quotidiani, ma la sua grande passione rimane il cinema

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