giovedì, Dicembre 19, 2024

Il Grande Spirito di Sergio Rubini: recensione

Malgrado alla base de Il Grande Spirito ci siano premesse interessanti – il racconto dell’incontro e dell’amicizia poco convenzionale tra un rapinatore trasandato (Rubini, qui anche regista) e un malato di mente convinto di essere un indiano Sioux (Papaleo) – sono molti i motivi per cui disinteressarsi di questo film troppo lungo, troppo sconclusionato e troppo poco interessato a lavorare su elementi guadagnati dalla propria realtà. Niente in questo film funziona a dovere: né il tentativo di descrivere attraverso una storia di genere un panorama sociale degradante, né la necessità di condire la commedia con un dialettalismo senza funzione, né la volontà di presentarsi come un prodotto situato a metà tra la commedia amara e il western contemporaneo.

Il film di Rubini infatti si perde nei clamori e negli schiamazzi di una trivialità scambiata per commedia; trasforma la sua natura intermedia non tanto in un vantaggioso ibrido di generi quanto in una cacofonica accozzaglia di ispirazioni e derivazioni; si ritira volontariamente verso le zone periferiche del senso, ignorando il fallimento dalla volontà di sfruttare la direzione comica e narrativa per mandare un messaggio politico e sociale. In cima alla rete suburbana di Taranto lo sfondo inquinato dall’Ilva suggerisce un’urgenza morale: l’ambientazione connotata per fare riflettere sulla perdita di valori necessari alla comunione con il mondo esterno però è solo un elemento di retorica ammiccante e non traduce mai la potenzialità del suo valore figurativo in una teoria sociale comunicabile attraverso la narrazione.

Pur essendo costellato di spunti riflessivi, il film non sfrutta il rimbalzo del panorama pubblico degradato e rimane ancorato a una costruzione di senso didascalica, banalizzante, che prova a enunciare contenuti di rilevanza ma si rivela con la lingua annodata in una parolaccia. Anche la sfilza di personaggi insulsi e confusamente cattivi non è indirizzata per essere tematizzata in una precisa galleria di personaggi esemplificativi dell’inquinamento morale della città e dell’impoverimento spirituale dovuto all’avidità. L’azione di tutti gli elementi appartenenti al contesto criminale e antropologico quindi non è solo poco credibile ma è anche deleteria per la costruzione del racconto, perché fine a se stessa e mai interessata a porsi come spaccato umano da cui guardarsi, contro cui agire con le armi dell’empatia, come sceglie di fare il personaggio di Papaleo.

Il suo profilo è l’unico elemento valido, quando non sfruttato – smorfia dopo smorfia, gag dopo gag – per alzare il coefficiente di demenzialità necessario al sollievo comico, perché in grado di rappresentare a dovere il senso magico che fa bene a ogni storia. Il suo carattere incarna la logica del bambino incomprensibile agli adulti, il mito dell’immaginazione che è slegato alla monetizzazione degli affetti e invece è aggrappato alla ricerca dell’amicizia destinata ad esistere per necessità spirituale; la sua partecipazione attoriale non è macchiata dall’artificiosità (come invece per Rubini) e il suo arco drammatico è legato a costruzioni di senso che usano una particolare situazione spaziale per comunicare a livello visivo la natura sopraelevata degli ingenui e la virtù emotiva dei sofferenti. Non è abbastanza però neanche questo per fare ottenere al film una sufficienza dignitosa: le due ore e l’incapacità di conoscere i propri limiti ingigantiscono i difetti e annullano questi risultati tediando fino allo sfinimento la ricerca di una qualità.

Leonardo Strano
Leonardo Strano
Primo Classificato al Premio "Alberto Farassino, scrivere di Cinema", secondo al premio "Adelio Ferrero Cinema e Critica" Leonardo Strano scrive per indie-eye approfondimenti di Cinema e semiotica. Ha collaborato anche con Ondacinema, Point Blank, Taxidrivers, Filmidee, Il Cittadino di Monza e Brianza

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