Una fotografia virata sui toni del seppia presenta l’antefatto e introduce al nucleo tematico de Il ladro di giorni: un padre e suo figlio trascorrono al mare gli ultimi istanti spensierati prima che delle guardie vengano per arrestare il primo e lasciare abbandonato il secondo, in un duplice movimento ascensionale – su per le scale e su per gli scogli – che prelude al futuro cammino in salita che i due intraprenderanno sette anni dopo, prima di un finale, di nuovo insieme, salto nel vuoto.
In seguito anche ad una non meglio precisata morte della madre, che pure si vede all’inizio, Salvo vive con gli zii quando Vincenzo, uscito dal carcere, torna infatti a riprenderselo. È l’inizio di un viaggio/consegna – l’uomo è finito dentro proprio per spaccio – che nasce interessato (“un bambino è meglio di una pistola”) e vorrebbe risolversi in sentimentale.
Vorrebbe.
Al netto di una traccia narrativa archetipica che include i motivi del rapporto genitori/figli, del road movie formativo, della scoperta (Salvo legge “L’isola del tesoro”), della vendetta, e che non è di per sé ragione di uno sviluppo piatto e inconcludente, questo nuovo film di Guido Lombardi, regista e autore del soggetto, perde acqua da ogni parte, soprattutto fallisce precisamente lì dove insiste.
Paladino di un cinema classico che arrivi alla pancia del pubblico grazie alla forza del melodramma, dimentica di curare il fattore cardine per la riuscita di un’esperienza audiovisiva di questo genere: a venir meno è su tutto la qualità di una scrittura che risulta invece scialba, melensa, sproporzionata. La negligenza sistematica di fronte all’approfondimento dei tanti, insoluti fili narrativi è resa ancor più drammatica dall’inconsistenza dell’asse portante: dialoghi inverosimili esplicitano l’ovvio, personaggi privi di direzione si muovono legnosi – a dispetto di una tentata componente action – nel solco di una sceneggiatura che sbaglia completamente i tempi, affida i turning point a sconcertanti forzature, restituisce in definitiva la percezione di una finzione che ingessa gli attori e imbarazza lo spettatore, mancando di gran lunga le corde dalle quali scaturisce il miracolo dell’immedesimazione.
E ancora, un film che sulla carta prende le distanze da certi esempi “festivalieri”, autoriali o pseudo tali, finisce per risultare pretenzioso quanto i più vacui tra questi, che pure oziosamente nega.
A infarcire la messa in scena arrivano allora prolissi colori nostalgici che evidenziano salti indietro nel tempo, reiterate soluzione formali che non veicolano né predispongono a una genuinità del sentire, simbolismi palesi e insistiti a tal punto da essere azzerati dalle battute stesse dei protagonisti che li dichiarano; particolarmente fastidiosa, priva di valore semantico, è la continua variazione della messa a fuoco nell’ambito della stessa inquadratura.
Prodotto da Minerva Pictures e Indigo Film con la collaborazione di Rai Cinema, Il ladro di giorni è più fiacco sul grande schermo di quanto non vi apparirebbe un prodotto televisivo.
La chicca: un product placement fantozziano a (s)vantaggio della Radiotelevisione italiana.