Home alcinema Il mondo in una stanza, Piera Oppezzo poeta di Luciano Martinengo: recensione

Il mondo in una stanza, Piera Oppezzo poeta di Luciano Martinengo: recensione

Mi raccomando, le mie cose” fa lei a lui, l’una in punto di morte, l’altro amico rimasto tra i pochi non allontanati.
Lei è Piera Oppezzo, poetessa torinese impiantata a Milano che scompare nel 2009 lasciando tutto di sé dentro qualche scatolone: poesie, romanzi, recensioni, riviste, quaderni di appunti, qualche foto, un premio, la vita per la scrittura, la scrittura ovvero la vita.
Lui è Luciano Martinengo, regista documentario, un tempo suo coinquilino, poi frequentazione intermittente, sempre appiglio sicuro tra i meccanismi ostili del mondo, un mondo che non è altro rispetto a quello elettivo entro il perimetro di una stanza, nella coincidenza tra esistere e credere nella poesia – che è fare poesia, anzi è interamente lì, ingombrante, dapprima esiliante, poi “ferma utopia”, infine disinganno, quindi esiliato di rimando senza che possa mai realmente smettere di essere presente, alienante.
E’ la parabola di una scrittrice che per affinità programmatica e programmatiche simili solitudini, incompletezze esistenziali, riempie le caselle che erano state di Emily Dickinson e Gertrude Stein, senza però somigliare davvero a nessuno, oscura e magnetica, ambigua e diretta insieme, estremamente sobria, tesa nello sforzo preciso, concettuale e non sentimentale, di nominare le cose per la prima volta; ed è anche la parabola di una donna, parimenti tormentata al di sotto della temperata superficie, atipicamente schiva, elegante in modo assoluto.
Martinengo è oggi dietro e davanti la macchina da presa a tentare una ricognizione sul vissuto pubblico e privato di Piera Oppezzo, partendo proprio dalla memoria personale ridestata da quell’eredità di carta, che davvero di lei dice tutto quanto c’è da dire, pur paradossalmente dicendo poco o nulla di ciò che abitualmente di qualcuno si dice: da dove veniva Piera, come viveva, chi frequentava.

Non poteva
la mia infanzia,
saccheggiata dalla famiglia,
consentirmi una maturità stabile, concreta.
Né la mia vita isolata
consentirmi qualcosa di meno fragile
di questo dibattermi tra ansie e incertezze.

Se di quell’infanzia decisiva non restano testimonianze dirette, il regista non può che far partire il tracciato necessariamente da lì, attraverso i ricordi di chi ha conosciuto la versione più giovane di Piera a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 (Maria Martinotti e Bruno Gambarotta, all’epoca collega e cameramen in Rai), con la rara occasione di sentirla raccontare di sé: dunque le ristrettezze economiche, il lavoro in sartoria già dall’età di nove anni, l’impiego come commessa alla Standa, solo poi l’occupazione – di basso livello – in televisione. Come abbia potuto un profilo come questo corrispondere a una delle poetesse più ricercate del Novecento è l’interrogativo che la galleria di voci messe insieme da Martinengo – quelle di Giancarlo Majorino, Michelangelo Coviello, Giulia Niccolai, Giovanni Tesio, Laura Lepetit sono solo alcune tra le altre, su cui spicca la testimonianza commossa dell’ex compagno Carlo (“l’amerei di nuovo una così”) – cerca di sciogliere, solo per ribadire l’impossibilità di sondare del tutto una figura irriducibile a qualsiasi contingenza, pur profondamente segnatane, lei precorritrice dei tempi, fino alla fine preda dello spettro innominabile di una depressione che trascende la propria stessa esperienza, sintomatica di un disturbo sociale, nello specifico generazionale.
Piera Oppezzo non ha voluto infatti esimersi dalle tensioni del decennio sessantottino, dal partecipare attivamente alle rivendicazioni femministe, né ha potuto, di conseguenza, fare a meno di precipitare la propria fragilità nello stesso infrangersi di una chimera che ha rischiarato l’isolamento prima, negli anni della pubblicazione tra le file della bianca Einaudi, e l’isolamento poi, verso quel Minuto per minuto che scandaglia le angosce di una dattilografa facendosi testamento epocale più che privato.
Davvero “il mondo in una stanza”, in senso dolorosamente integrante, paralisi schiacciante.

si può vagabondare sempre
anche chiudendo la porta di casa
non è vero che non c’è nessuno
ci sono io ho capito
mi state inseguendo
dice a qualcun altro che insiste per sapere.

L’operazione di Martinengo ricorda da vicino, per soluzioni formali analoghe ad analoghi contenuti, il Ferrante Fever di Giacomo Durzi; ragionevolmente meno velleitario di questo, il film è ispirato e legittimato dal coraggio della propria stessa proposta. Se quella di Elena Ferrante è un’ombra che stride con il suo enorme peso specifico sull’attualità, l’ombra di Piera Oppezzo è ontologica. Non si può conoscerla che parzialmente, e neppure parzialmente se non arrendendosi alla seduzione che sia così.
Il Cinema Spazio Oberdan di Milano propone il film in prima visione tra il 14 marzo e il 18 marzo, durante la prima serata saranno presenti in sala il regista Luciano Martinengo e i poeti Giulia Niccolai, Giancarlo Majorino e Giovanna Rosadini.

CALENDARIO PROIEZIONI
Cinema Spazio Oberdan Milano

Giovedi 14 marzo ore 21.15
Venerdi 15 marzo ore 18.15
Sabato 16 marzo ore 18.45
Domenica 17 marzo ore 15.00
Lunedì 18 marzo ore 18.30

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