domenica, Dicembre 22, 2024

Il nemico. Un breviario partigiano di Federico Spinetti: la recensione

Breviario partigiano, nessun fucile in mano, ma solida innocenza per viaggiare contromano.
Breviario partigiano, nessun fucile in mano, ma solida incoerenza che ci porterà lontano.

E’ una lunga storia di solida innocenza e solida incoerenza quella che racconta Massimo Zamboni, chitarrista, leader storico e fondatore di CCCP Fedeli alla Linea con Giovanni Lindo Ferretti.
Una storia che cominciò a Berlino, nel 1981.
Zamboni andò seguendo un richiamo (salvare la nostra vita, suonare non era il fine. Il fine era salvare la nostra vita per non finire nelle gabbie di un lavoro qualsiasi). A Berlino incontrò le parole di Giovanni Lindo Ferretti (un freddo pungente, accordi secchi e tesi segnalano il tuo ingresso nella mia memoria, consumami, distruggimi, è un po’ che non mi annoio, Emilia paranoica…)
Carpi divenne la periferia estrema di Berlino, nacquero i CCCP, gruppo che si autodefinì di musica melodica emiliana e di punk filosovieticoFedeli alla linea, anche quando non c’è, non c’è ancora, era un obbligo fare i conti con la storia, con la piccola patria reggiana, la città più rossa di tutto il mondo occidentale.
E quando a Mosca nell’ ‘89 cantarono A Ja Ljublju SSSR i militari, ce n’erano molti in sala, si alzarono in piedi, il riff della chitarra sembrava il loro inno:

… il fuoco di un cuore che incendia la mente
puo’ fondere il gelo del marmo: bollente!
onoro il braccio che muove il telaio
onoro la forza che muove l’acciaio
A Ja Ljublju SSSR
io amo la Russia.

Ma poi muore il comunismo, muoiono i CCCP.
Cosa dire di più?

Spara Juri spara, spera Juri spera. Felicitazioni

Nasce CSI Consorzio Suonatori Indipendenti, si scioglie dopo qualche anno, Lindo Ferretti si stacca definitivamente dal gruppo, ognuno segue la sua strada, spesso è una ricca trama fitta di idee ed esperienze, come quella di Massimo, ma il ricordo di quel memorabile 1995 a Correggio, cinquantenario della Resistenza Partigiana, quando diluviava che Dio la mandava, e finì che solo noi non potemmo cantare, ma non importa, fu esaltante lo stesso… cose che non si cancellano facilmente.
E un nuovo decennale, il settantesimo anniversario della Resistenza, è arrivato. Sono passati quindici anni dalla fine del gruppo, si fa fatica a fare i conti col tempo e la malinconia, serve uno scatto, un ritorno, o forse un nuovo inizio.

Un film, un docu-film, quello che il regista Federico Spinetti per la produzione Lab 80 film affida a Massimo Zamboni, voce di una ricostruzione memoriale che intreccia memoria personale e storica. Massimo ha un nodo da sciogliere, una scoperta nella storia di famiglia, di quelle che riaffiorano dopo decenni, sepolte sotto strati di rimozioni imbarazzate e sofferte, di non detto, una di quelle storie da dimenticare che i vecchi portano con sè nella tomba. Storia di uno sparo, quello che abbattè suo nonno lungo quella strada sterrata costeggiata da canalette fra i campi. Correva in bicicletta col fratello, quelle bici nere, pesanti, della pianura padana.
Era un fascista, segretario politico del Fascio di Campegine. Gli spararono i partigiani, era l’ultimo giorno di Febbraio dell’anno bisestile 1944, lungo quella strada sterrata restò la bici con le ruote in aria a girare ancora un po’.

I componenti storici del gruppo tornano insieme, ora sono i Post-CSI, Giorgio Canali, Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli e Simone Filippi. Non c’è Lindo Ferretti, al suo posto la voce di Angela Baraldi.

Massimo li riunisce in un progetto sul tema partigiano, pensieri e canzoni condivise, rese ancora più lancinanti dalla storia comune, dall’intramontabile essere restati fedeli alla linea, anche se la linea ancora non c’è, aggiunge.
Questo è il momento di ripensare il passato da un presente senza retorica, la spinta ideale è la stessa ma le deformazioni prospettiche giovanili hanno lasciato il posto ad uno sguardo libero, consapevole. La musica, dice Julien Grack, sana la discordanza tra il flusso del pensiero che è continuo e il mezzo di espressione che è discontinuo, supera le resistenze, la lingua diventa plastica.

Dunque si può raccontare con la musica nella cornice del teatro di Gualtieri, splendida location che un restauro rispettoso ha riconsegnato da poco alla città. I post-CSI suonano ancora in cerchio, nel campo sonoro circolare le onde vanno e vengono in un reticolo rotante, Massimo propone un testo da mettere in musica: “Il nemico”.

L’emozione è il ponte tra felicità e tristezza, la musica, cuore pulsante, flusso, movimento, ne scrive le gradazioni.
Si scrive così una storia musicale della Resistenza in cui le emozioni vengono filtrate dal fitto tessuto di immagini sonore. Il film è disincantato e vitale al tempo stesso, tornano vecchie canzoni e se ne affacciano di nuove in una scrittura di rigorosa essenzialità.

Massimo e i suoi arrembaggi fra carte polverose alla ricerca della memoria perduta guidano lungo il tracciato, la lettura di brani dal suo ultimo libro, Storia di uno sparo, scandisce il ricordo, definisce le emozioni: Non sono che un animale poetico. Un organismo costretto all’amore. L’evoluzione procede nell’estinzione; mai perdita assoluta, ma sostituzione tra le specie, in infinito processo molitorio.

Gli altri del gruppo provano i loro strumenti, il canto è graffiante, urlato, spesso anche sussurrato con rabbia e dolcezza, le consoles elettroniche scoppiettano di lucine, le riprese ruotano sbirciando fra le colonne della sala. Il colore è ramato, crepuscolare, da vecchi interni fumosi. Poi d’un tratto, come per una necessità, si esce fuori nella campagna emiliana piena di luce fra le stoppie riarse o i campi verdi di erba medica, blu cobalto nei notturni stellati.

Fra quei campi gli uomini si uccidevano fra loro, settanta anni prima, e allora sembrò fosse giusto, normale.
Per decine di anni, dopo, altri uomini cercarono i resti fra quelle zolle per la necessità viscerale di piangere sopra una sepoltura certa.
C’erano, fra tanti, sette fratelli, i Cervi, contadini illuminati che credevano che solo la cultura avrebbe liberato il mondo. Morirono prima di tutti, il 28 dicembre 1943. C’erano centinaia di giovani, anche giovanissimi, con i loro soprannomi coloriti e battaglieri, Lucifero, Lampo, Vincere, Furia, Stella Rossa, Folgore.

C’era anche un ragazzino, Giambattista Trolli, nome di battaglia Fifa. Massimo sorride “Certo, fifa ce n’era da morire, ma si combatteva”.

Guardali negli occhi, cantano, anche se è uno sguardo molto difficile da sostenere mentre da quel cippo ti guardano le loro facce giovani e belle. La Resistenza fu Una questione privata, come disse Fenoglio, poteva quel ragazzino spaventato, quel Fifa, pensare che combatteva per la libertà della patria? Eppure combatterono, riempirono quei casoni della cosiddetta “latitanza partigiana” nascosti sull’Appennino Emiliano, fin quando non erano presi e schierati contro il muro esterno. Ognuno di loro ha scelto un percorso di vita e di morte, eroi solitari.

Il gruppo canta:
Oh partigiano portami via
Che mi sento di morire…
il bersagliere ha cento penne
l’alpino ne ha una
il partigiano non ne ha nessuna e sta sui monti a guerreggiare…

Resta l’ultima domanda di Massimo, nipote senza nonno: cosa mi ha portato dalla parte avversa? Quella classe inutile, avida, violenta, spietata, obesa, è la risposta. 

Ma non c’è stata espiazione, confessione, ammissione. La continuità ha segnato la storia del Paese. La Resistenza, storia minoritaria in un’Italia dove gli apparati dello Stato vivono all’insegna della continuità, è stata usata, continua ad esserlo. Dunque il nemico, allora come ora, è penetrato nella mia città.

La bellezza incolpevole che è lo spirito del luogo guarda in silenzio l’alterna onnipotenza delle umane sorti, ora come allora.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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