mercoledì, Novembre 6, 2024

Il prigioniero coreano di Kim Ki-Duk: la recensione in anteprima

La rete (The Net) attraverso cui sbirciare mostra quel sistema stratificato che permette a Kim Ki Duk di rivestire il suo film di intenti socio-politici, mentre ogni piano che viene a svilupparsi annulla l’altro, “un cinema delle rovine che non è semplicemente l’immagine di un contesto sociale”, “teso a neutralizzare l’orientamento prioritario di una verità sull’altra, cercando una dimensione sospesa nel momento dell’attraversamento”.

C’è dunque il rischio, a livello interpretativo, di cadere nella trappola ideologica nel momento in cui ci viene presentata l’esistenza del modesto pescatore nord coreano Nam Chul-Woo che improvvisamente si trova al confine con la Corea del Sud (una rete si è impigliata nel motore della sua barca e lo ha mandato in panne).

La miseria umana, l’avversità degli eventi, la tortura (fisica e psicologica), il conflitto sono tematiche già conosciute e assodate, qui utilizzate come mezzo per parlare di un dispositivo reticolare, connettivo che può chiamarsi in qualsiasi modo, governo comunista/capitalista/nucleo familiare, senza che questo cambi la sostanza dei suoi intenti: controllare le coscienze e rendere irriconoscibile all’individuo la sostanza dei propri desideri.
Meccanismo non molto dissimile da quello che si verificava ne “L’Isola” dove la silenziosa Hee-Jin si trovava improvvisamente coinvolta nel vortice autodistruttivo di Hyun-Shik, uomo in fuga da un omicidio, un incontro cruciale perché avvicina e intreccia le solitudini dei due amanti feriti e lacerati, come alla ricerca di un effetto tangibile laddove diviene difficile rintracciare l’origine dei propri desideri, superando quelli autodistruttivi.

La stessa incertezza risiede nell’animo di Chul-Woo che, di ritorno in Corea del Nord, si ritrova completamente svuotato, privo delle motivazioni iniziali: la famiglia che ritorna continuamente come pungolo alle proprie azioni. Ma è davvero quello il fine ultimo? Eppure, al suo ritorno, Chul-Woo non riesce nemmeno a toccare la propria moglie, a farci l’amore come prima in modo selvaggio e istintivo. Che la sua deriva nel tessuto connettivo di Seul non gli abbia portato le inibizioni tipiche dell’inafferrabile paesaggio urbano che abbaglia e frastorna?

La tortura da parte degli agenti anti-spionaggio della Corea del Sud è un dispositivo che innesca nella mente di Chul-Woo un distacco dalla propria dimensione e da tutto ciò che aveva vissuto sino ad allora, una continua ripetizione e riconferma del cinema di Kim Ki Duk, ancorato e in movimento allo stesso tempo, che ha intrapreso un percorso volto a soddisfare, anche solo parzialmente, il quesito “Chi sono io?”, in coda al bellissimo e spiraliforme “One on One”, dove lo spazio sfondato, distrutto, spaccato in due, apre un passaggio tra il diegetico e l’extradiegetico e qui, come anche in Dream (Bi-mong), si manifesta con l’utilizzo di videocamere di sorveglianza, filtri che trattengono e rilasciano e che, nel caso del pescatore nord Coreano, fungono da aperture verso spazi sconosciuti e come messa in discussione delle proprie certezze.

Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini è curatrice della sezione corti per il Lucca Film Festival. Scrive di Cinema e Musica

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