Winter Sleep è la storia di un attore in pensione che vive degli affari di un piccolo hotel e di altri affitti nella zona, delegati come gestione ad un fedele assistente. Con lui abita la moglie e la sorella divorziata. In più di tre ore di cinema, Nuri Bilge Ceylan tesse una tramatura di rapporti che diventa sempre più stratificata, ispirandosi ai racconti brevi di Chekhov e regalando un capitolo di cinema contemplativo tra parola e immagine con numerosi riferimenti ai dilemmi Shakespeariani, reinterpretati dal punto di vista della cultura Turca secondo una prospettiva esistenzialista. Il paesaggio suggestivo della Cappadocia è lo sfondo del film, ed è lo stesso Ceylan che nella conferenza stampa Cannense, dopo la presentazione del film dichiarava “non volevo utilizzare quel paesaggio inizialmente, ma ho dovuto farlo; avrei preferito un posto più semplice, in pianura, ma il film doveva essere ambientato in una zona turistica e avevo bisogno di un hotel che fosse in qualche modo isolato dalla città principale, perchè volevo che gli attori vivessero in un contesto isolato. La Cappadocia è l’unico posto che anche in inverno registra la presenza di turisti. Avevo paura di girare li perchè avrebbe potuto apparire troppo bella, troppo interessante. Spero di non averla fatta vedere troppo”
E in effetti, il paesaggio che caratterizzava tutta la poetica di “C’era una volta in anatolia” qui fa sostanzialmente da sfondo alla struttura letteraria del film, desunta da tre storie brevi di Chekhov, i cui dialoghi interminabili sono affidati ad attori professionisti in grado di gestirli, proprio per questo “Winter Sleep” è un film sull’intensità mutevole della parola frutto del lavoro di scrittura dello stesso Nuri Bilge Ceylan insieme a Ebru Ceylan che insieme delineano uno script originale di 1183 pagine poi ridotte ad una versione più sintetica.
Se quindi il film precedente di Ceylan in qualche modo cercava di reinterpetare la scrittura Dostoyevskyana, Winter Sleep è una sintesi dell’universo Chekhoviano che qui riduce la forza paesaggistica del cinema del regista turco attraverso la figura di Aydin, vero propellente immaginale e narrativo, tra cinismo e ambizione e dilaniato da dilemmi di matrice Shakespeariana. I momenti di immaginazione visiva sono soverchiati dalla parola e si limitano ad alcuni momenti di una certa potenza come tutta la sequenza che ci mostra la cattura di un cavallo indomato, ma al di là di questo e di un paesaggio che non invade più l’inquadratura, c’è un rallentamento dell’elemento temporale, allineato al flusso di coscienza di Aydin. Ne risulta una caratterizzazione ricchissima degli stati d’animo, raccontati e dettagliati con quell’approfondimento che è consentito alle opere letterarie e alla letteratura teatrale non ancora calata nella dimensione drammaturgica della messa in scena, tanto che la struttura stessa del film è come strutturata per blocchi, come se l’unità scopica di ogni inquadratura, spesso estenuante, con sequenze lunghissime a livello di minutaggio, fosse assimilata alla digressione narrativa circoscritta di un singolo racconto breve, autonomo nella sua fisiologia interna. I rari momenti in cui si esce da questo imponente muro di parole è quando l’immagine si apre ai gesti e alle azioni dei personaggi marginali che in qualche modo frastagliano l’unità impenetrabile che si sviluppa intorno al personaggio di Aydin. Perchè alla fine in “winter sleep” non accade niente, tutto è immobile nella tortuosa messa in abisso della parola.