sabato, Novembre 2, 2024

Il sapore del successo di John Wells: la recensione

È probabile che Steven Knight si trovi bene in cucina, e Burnt ha più o meno la stessa struttura del film che lo sceneggiatore inglese ha recentemente scritto per Lasse Hallström. Le radici di Adam Jones non sono quelle di Hassan, ma il cibo come incontro tra culture sottende entrambi i film, così come il confronto tra innovazione e tradizione, la rivalità tra chef e la conquista della terza stella Michelin per rafforzare un’idea apolide di famiglia più che per corroborare una qualsiasi metafora del successo. Non manca il racconto di formazione; se nel film di Hallström assumeva una posizione centrale, qui è spostato sullo sfondo attraverso il piccolo ruolo affidato a Sam Keeley, il giovane cuoco irlandese che assimila a poco a poco tecniche e attitudini del maestro nel campo di battaglia della cucina.

Ed è proprio in quel contesto che il film di John Wells esprime la sua principale vocazione, scegliendo un luogo deputato e in qualche modo lanciando una serie di derive narrative che dal centro procedono verso i legami di Adam Jones (Bradley Cooper) passati e futuri, accennando la presenza di molte storie possibili. È un metodo che il regista e sopratutto produttore televisivo americano desume dalla sua lunga esperienza con il formato serial e che qui viene concentrato al massimo sovrapponendo tracce, stimoli e per certi versi anche generi che emergono fugacemente per poi scomparire nel niente senza alcun tipo di sviluppo come al contrario avrebbe consentito un formato più esteso.

La stessa linea rom-com, quella apparentemente predominante, risulta alla fine del tutto subordinata rispetto al processo di riscatto e agnizione dello stesso Jones, vero attrattore di tutto l’universo narrativo che gli gravita intorno, tanto che gli stessi personaggi che incontriamo di volta in volta sono schegge di un passato irrisolto, in fondo giustificate dal personaggio della Dottoressa Rosshilde, la psicoterapeuta dello chef ribelle interpretata da Emma Thompson e che costantemente cerca di indirizzarlo verso una conciliazione con il suo passato.
Ecco che la cucina, backstage incluso, diventa allora il luogo in cui far confluire i frammenti di questa transizione, dai tirapiedi che minacciano Jones fino all’apparizione risolutiva di Alicia Vikander, il cui legame con Jones viene accennato con poche battute e sintetizzato nel passaggio di mano dei coltelli appartenuti al padre di lei, vero e proprio oggetto che dischiude insieme al valore ereditario, l’origine di un senso di colpa, ma anche di appartenenza.

In questo senso Wells è abilissimo nel concentrare con la velocità dei gesti e dell’azione quello che nel film di Hallström si sviluppava attraverso un impianto classico di respiro più ampio, filtrato attraverso certo cinema degli anni ottanta, ma la sensazione che tutto sia troppo chiuso e abbozzato cresce sempre di più e si affida troppo spesso alla battutina ad effetto, al momento esplicativo e all’espressione dei sentimenti che puntano alla superficie, basta pensare al bacio stampato sulla bocca di Tony (Daniel Brühl), tutta la vicenda dei tirapiedi che minacciano Jones, e quelle simmetrie un po’ troppo esplicite tra rivalità, tradimento e fiducia che intrecciano e scambiano i ruoli di Matthew Rhys e Omar Sy, spunti da un certo punto di vista interessanti per raccontare l’incapacità immediata di Jones nel riconoscere la verità di un sentimento ma allo stesso tempo troppo didascalici per bucare davvero l’involucro ritmico del film, ancora così convenzionale per avvicinarsi alle piccole apparizioni del quotidiano. E se proprio a questo proposito Wells dimostra in alcuni casi di saperci fare, per esempio concentrando il primo contatto di Jones con la figlia di Helene (Sienna Miller) senza indugiare nel sentimentalismo, ma giocandosi tutto con una breve sequenza che ancora una volta mette al centro la cucina come luogo peculiare per l’espressione dei sentimenti, allo stesso tempo non basta certo una fagiolata in comune per far uscire il film di Wells/Knight dalla cornice del quadretto.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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