[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”f5af00″ class=”” size=””]Sinossi: Antonio Barracano, “uomo d’onore” che sa distinguere tra “gente per bene e gente carogna”, è “Il Sindaco” del rione Sanità. Con la sua carismatica influenza e l’aiuto dell’amico medico amministra la giustizia secondo suoi personali criteri, al di fuori dello Stato e al di sopra delle parti. Chi “tiene santi” va in Paradiso e chi non ne tiene va da Don Antonio, questa è la regola. Quando gli si presenta disperato Rafiluccio Santaniello, il figlio del fornaio, deciso a uccidere il padre, Don Antonio, riconosce nel giovane lo stesso sentimento di vendetta che da ragazzo lo aveva ossessionato e poi cambiato per sempre. Il Sindaco decide di intervenire per riconciliare padre e figlio e salvarli entrambi. Mario Martone porta al cinema Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo con un film di forte attualità capace di raccontare l’eterna lotta tra bene e male.[/perfectpullquote]
Martone non ha interesse a modulare l’identità teatrale che appartiene geneticamente a Il sindaco del Rione Sanità. La traduzione cinematografica del testo di De Filippo infatti non si contamina con altri linguaggi e si comporta quasi in toto come uno spettacolo teatrale: rispetta per la maggior parte del suo sviluppo drammatico i codici dell’unità di luogo e tempo, si articola ritmicamente secondo la cadenza musicale propria della vocalità da palcoscenico e concentra le informazioni in un epicentro fisico che presto diventa metaforico: racconta quindi la sua storia – le dinamiche decisionali di Antonio Barracano (Francesco Di Leva), “uomo d’onore” a governo di un quartiere, della sua corte e delle persone che lo interpellano per la diramazione di problemi – secondo le regole di un medium artistico che pur essendo ospite dentro un altro medium, riesce a farsi sovrastruttura semantica prepotente.
Questo è motivo di pregi e difetti per il progetto cinematografico di Martone.
Da una parte è facile apprezzare l’esilio del cinema di mafia dalla pancia urbana degli stereotipi narrativi – la ripetitività della vicenda etnografica, su cui ci informa la canzone di apertura, è scartata dal principio – per tentare una virtuosa forma di ripensamento scopico del genere; dall’altra è difficile non pensare a un dislivello gerarchico e quindi a un implicito atto di legittimazione – del cinema grazie al teatro: come se il cinema avesse finito le prospettive per parlare di crimine e si dovesse ricorrere ad altro e affittare una forma per ritrovare linfa espressiva.
La costruzione teatrale regala a Martone sia il pieno controllo sui contenuti – tutti messi in scena, tutti prescritti, tutti presentati – sia una capacità di astrazione universalizzante: egli interviene al microscopio sull’etica del potere, sull’essenza dei legami famigliari, sui significati di coerenza e fedeltà, e presentando in vetrina il dettaglio particolare ne dimostra la natura universale e senza tempo (nel paradosso della cornice di unità aristotelica).
Allo stesso momento però perde la fascinazione del fuori campo, dell’imprevedibilità del senso propria dell’immagine cinematografica e della continuazione extra diegetica delle tematiche, che il teatro reale possiede per ragioni strutturali solo grazie a due elementi: l’unicità irriproducibile di ogni rappresentazione fisica e l’unicità complementare della presenza psicologica dello spettatore.
Per questo, ad eccezione di un’inquadratura finale che nasconde più sensi e quindi genera un proseguimento ambiguo, Il sindaco del Rione Sanità è conchiuso nel sigillo teatrale e questa costrizione, questo limite rappresentativo lo porta sia a produrre un senso sia a soffrire lo scacco.