Coprodotto da Sky Sport e sostenuto dai fondi del Ministero, Il Terzo Tempo si configura come veicolo cinematografico per la cultura rugbistica in Italia, rivolto ad un pubblico giovane che potrebbe rimpolpare ulteriormente vivai, spalti e fanclub di uno sport in ascesa. Come ben si accorda allo spirito della palla ovale, il film racconta una storia di riscatto lontana da professionismo e lustrini, quella di Samuel, ex detenuto in libertà vigilata che si ritrova su un campo di rugby per volere di Vincenzo, suo assistente sociale ma anche ex gloria delle mischie prestato alla panchina di una squadra storica ma disastrata. La competizione, i valori di una cultura sportiva che non conosceva e l’amore per la bella figlia di Vincenzo forniranno a Samuel una nuova chance per riprendere in mano la propria vita, un terzo tempo dove la sconfitta subita nei suoi tempi regolamentari.
Fresco prodotto del Centro Sperimentale e già autore di un documentario su L’Aquila Rugby, Artale non manca di impegno e di idee chiare nel confezionare un prodotto tecnicamente valido e capace di richiamare alla mente fango e sudore. Sopra all’affilata colonna sonora dei Ronin, scorre una fotografia bluastra e desaturata per conferire aura di paradossale autenticità all’immagine, così com’è utile allo stesso proposito l’abbondante utilizzo della camera a mano, spezzettata da ralenti, accelerazioni e bodycam nelle dinamiche sequenze di gioco; un’estetica piuttosto abusata ma in ogni caso maneggiata con mestiere.
Il problema del film risiede però nella sconfortante sciatteria a livello di intreccio e sviluppo dei contenuti: aldilà delle modalità piattamente didascaliche con cui vengono introdotte regole e tradizioni della palla ovale (con tanto di spiegone dei fondamentali in voce off sui ralenti di una partita tra bambini), la sceneggiatura fa di tutto per incappare nei cliché più frusti del film sportivo. L’allenatore vecchia gloria con problemi di alcool e di rimpianti che riconosce il talento vedendolo scappare da una rissa, il giovane ribelle corrucciato che impara dopo le prime resistenze a rispettare lo sport e il suo mentore, la love story con la dilui figlia, la rivincita iniziata contro la squadra dei carabinieri e portata a termine contro i primi in classifica, allenati dall’eterno rivale del coach. E se il giovane Richelmy, tra qualche eccesso di musi duri, tutto sommato strappa momenti di empatia, a poco aiutano le prove svogliate di attori in teoria più scafati come Cassetti e la Rocca.
Per di più il racconto pare soffrire del complesso tutto italo-calcistico di un rugby che vive esclusivamente in antitesi allo sport egemone (il ritornello “qui non siamo su un campo di calcio”, ripetuto in svariate accezioni). Il gioco viene illustrato pigramente, levigato da peculiarità proprie e scandito da applicabili ad ogni disciplina di squadra (non giocare da solo, passa la palla, credici sempre). Eppure lo svolgimento sembra suggerire che, nello sport di coesione e sacrificio per eccellenza, basti un po’ di corsa e di rabbia per diventare in una settimana l’arma letale di un collettivo, collettivo a cui tra l’altro il film destina prima il ruolo di antagonista e poi di comprimario del campioncino improvvisato. Il Terzo Tempo risulta così un compitino senza ambizioni di personalità, rassegnato ad una dimensione più promozionale che artistica e in definitiva fuorviante anche rispetto ai propri scopi prefissati.