La neve si tinge di rosso nella sequenza iniziale de “Il nostro traditore tipo“, mentre Susanna White piazza la camera sul terreno, scegliendo una posizione sghemba così da riempire l’inquadratura con lo sguardo vitreo di una ragazza appena uccisa come un cerbiatto in fuga nella foresta. Più del legame narrativo con i personaggi che conosceremo durante il corso del film, sembra chiaro sin dall’inizio l’interesse di Susanna White per le figure femminili schiacciate ai margini di un mondo disumanizzato. Non sarà un punto di vista isolato in questo inconsueto adattamento da uno dei romanzi più recenti di John Le Carré, tanto da individuare più di una volta le conseguenze della violenza attraverso il corpo delle donne e i loro sentimenti. Dalle feste russe in Marocco alla banlieue parigina, lo sguardo della White a un certo punto scardina le simmetrie dello spy movie insinuando una smagliatura nel sistema.
Basta pensare allo sguardo di Ewan Mcgregor posseduto dalla meraviglia mentre entra per la prima volta nel delirante impero in festa controllato da Dima (Stellan Skarsgård); tra le prime visioni che contraddicono lo splendore della superficie, quasi fosse l’emersione improvvisa di una dimensione iperreale tra fiaba e incubo, c’è quella di una ragazza nuda su un cavallo; il suo sguardo perso nel vuoto allude ad una violenza che non ha corpo ne sostanza, perché ne rappresenta quasi il riflesso fantastico, la base di un’immaginario maschile che può permettersi qualsiasi bizzarria.
Ed è interessante in questo senso il modo in cui la White piega la fotografia lisergica di un veterano come Anthony Dod Mantle, senza indugiare nella distorsione come avrebbe fatto Danny Boyle (con cui Mantle collabora sin da 28 giorni dopo), per rivelare piccoli difetti percettivi, un continuo riassestamento della messa a fuoco e quella distanza che trasforma il vedere nell’esser visti. La sensazione di essere spiati da uno sguardo onnisciente ci sembra che sia desunta dal lavoro di Dion Beebe fatto per Jane Campion nel bellissimo “In the cut”, titolo che ha alcuni elementi in comune con questo anche se l’esplorazione oscura del desiderio che attraversa il film della regista neozelandese, viene sostituita con le tracce di un percorso amoroso che alla violenza globalizzata contrappone il tentativo di ritrovare la fede nella famiglia nucleare.
La crisi tra Perry (McGregor) e Gail (Naomie Harris) è chiaramente al centro del film, proprio come punto di collegamento tra il perdersi, il pedinarsi e il ritrovarsi, tra la deriva verso le regole della società e la possibilità di uscire dal mondo per individuare uno spazio ricco di senso. Tutti i luoghi dello spy movie, incluso lo chalet per una fuga sotto protezione, diventano quindi lo spazio in cui la coppia può nuovamente ridefinirsi.
Per quanto il rispecchiamento con la storia di Dima possa sembrare forzato e improbabile, serve alla White per costruire delle analogie non così speculari e scontate tra la dimensione mafiosa, quella intima e le modalità in cui queste penetrano il sistema sociale; dal rischio di diventare sin troppo didascalica nel gioco tra queste connessioni, emerge un piccolo film visionario che trae la sua forza migliore dai piccoli gesti e dall’impermanenza dello sguardo. È proprio l’occhio tra i riflessi che rilegge la claustrofobia polanskiana, trasformandone il pessimismo senza uscita in quel movimento ondivago di una relazione, tra incertezze e momenti di cecità.