domenica, Dicembre 22, 2024

Il violinista del diavolo di Bernard Rose: la recensione

Se, come dice Derek Zoolander, “Sospetto che ci sia altro nella vita oltre ad essere bello, bello in modo assurdo. E presto scoprirò anche che cos’é! “, David Garrett /Paganini é qui a dimostrare che “essere bello, bello in modo assurdo” può, a volte, andar d’accordo con l’ “essere bravo, bravo in modo assurdo”.
Forse non a recitare, ma a suonare sì. Perché in questo film Garrett suona in diretta e il violino è uno Stradivari da 40 milioni di dollari che merita tutto il rispetto.
Non lo suonerà esattamente come Paganini, questo non possiamo dirlo, ma si destreggia con onore e inoltre, valore aggiunto, scrive anche il resto dell’ottima colonna sonora del film.

Ma Il violinista del diavolo non é un biopic nel significato ortodosso del termine.
Prende spunto, costruendo ampie arcate temporali e lanciandosi in sintesi a dir poco pindariche, dalla vita del grande virtuoso genovese, viveur, maudit, morto sifilitico, e lo riporta sulla scena con la sua musica. Ma nell’offrirci quello che diremmo “il bello della diretta”, Garrett ci costringe ad entrare nei colori, sapori e dissapori, insomma nella quotidiana tribolazione di un genio. E lo fa con sufficiente credibilità e, quel che più conta, pone un problema, e lo pone con l’occhio rivolto alla continuità fra passato e presente.
E’ quello del talento nello scontro con la realtà, dell’arte e dei suoi compromessi con il mercato, della fragile armonia del genio e del robusto picchiar di tamburi di ottusi borghesi, snervati aristocratici e grifagni mediatori riuniti intorno al suo capezzale.
Quando Paganini sta morendo ancora c’é qualcuno da scacciare, ed é il prete con l’estrema unzione, unguento attaccaticcio che il musicista si pulisce via dalla fronte perché in quel momento l’unico ricordo da portare con sé é quello di Charlotte (Andrea Deck) e del suo canto sublime.
L’amore è stata l’unica salvezza che gli è apparsa per un attimo e il mondo gli ha portato via, dopo è rimasta solo la musica.
Per dire tutto questo Bernard Rose e David Garrett danno vita ad un impasto sonoro che é la sostanza più forte del film. Qualche debolezza nella sceneggiatura (il drappello dell’esercito della salvezza londinese è davvero fastidioso) e qualche cedimento al mélo nella fase dell’innamoramento, si riabilitano ben presto nella scorrevolezza del racconto, che tocca solo in punta di penna la biografia, preferendo lasciar spazio alla performance musicale.
Potremmo allora definirlo uno spettacolo dell’artista arricchito da un canovaccio, un teatro musicale new wave, un recitar cantando, qualcosa che, da Plauto alla Camerata dei Bardi, per arrivare alla grande stagione del melodramma ottocentesco, appartiene al genio musicale di tutti i tempi della nostra Europa.
Raccontare la musica che s’intreccia con la vita un tempo apparteneva al teatro, oggi al cinema.
Cambiano i mezzi, crescono le possibilità, come le magnifiche riprese esterne tra i parchi di stupendi castelli europei, il “fumo di Londra” ricreato ad arte per far dire ad Urbani (uno strepitoso Jared Harris nel ruolo del manager dalla barbetta caprina e mefistofelica:“Sembra che ci sia un incendio!”, la bella casa di Watson (Christian McKay) l’impresario londinese e direttore d’orchestra e il Covent Garden con i suoi stucchi e ori ricostruiti in studio a Vienna e a Monaco come se si fosse sul posto.
Resta, intatta, la sostanza della messa in scena, con al centro l’uomo, miseria e nobiltà.
David Garrett é uomo dei nostri tempi, é una star e come tale si muove (“Niccolò Paganini? Il Jimi Hendrix della sua epoca”dice senza suscitare scandalo), ma l’amore e il rispetto per la musica non si fingono.
La scelta di Paganini non nasce solo da simbiosi indotta dallo strumento comune. Sono entrambi virtuosi, cioè esponenti di una pratica della musica in cui forte é l’istanza individualistica.
Torna a farsi sentire, con Garrett, quello sturm und drang, quel romantico impeto ed assalto che disgregò in dissonanze, cromatismi, libertà armoniche e culto dell’improvvisazione l’equilibrio e la simmetria classica.
L’impeto romantico fece la rivoluzione, il secolo successivo portò alle estreme conseguenze la distruzione di quella che Massimo Mila chiama: “l’organizzazione razionale della sensazione sonora” (in Breve storia della musica, Einaudi, 1963, pg.210).
Paganini fu il campione di un individualismo che nel virtuosismo vide l’espressione più autentica del genio artistico. Non molto separa i due mondi e le due epoche, le star di oggi e di ieri, compresi i rischi che, puntualmente, Mila delinea: “Dopo aver spezzato la forma classica, perché sentita come qualcosa di estraneo all’autentica ispirazione, si finiva per ricorrere, nell’arbitrio della completa libertà formale, ad un principio formativo preso dall’esterno della musica stessa […] si rischiava di cadere nell’illustrazione, cioè in una meccanica e convenzionale riproduzione, per mezzo dei suoni, di determinati effetti sentimentali, nel suggerimento di stati d’animo accortamente imitati senza un’effettiva partecipazione personale”.
Se tutto questo non riguarda certo Paganini, inossidabile alla prova del tempo, non sappiamo se riguarderà David Garrett. Gli auguriamo di no, in lui c’è forza e c’è passione e, quanto meno, Il violinista del diavolo fa dimenticare  la pessima prova di Klaus Kinski nel 1989, quando fu necessario ricorrere all’ottimo violino di Salvatore Accardo.
Qui si ascolta lo stesso buona musica, ma in diretta. Lo spettacolo è più avvincente.
Quanto a Christian McKay/Watson è un vero, abile pianista, e quando si siede al piano lo avvertiamo subito, mentre Andrea Deck/Charlotte è un soprano che merita una lunga e fortunata carriera.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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